Era il 17 aprile 1970 quando rientrò sulla Terra la missione Apollo 13. Le missioni lunari erano quasi diventate una routine, suscitando poco interesse. Ma non fu così per la fine dell’Apollo 13, dove molti trattennero il fiato nei lunghi minuti della fase di rientro, mentre si temeva per la vita degli astronauti.

L’Apollo 13 era la quinta missione umana del programma Apollo della NAS, la missione che avrebbe previsto l’atterraggio nella luna (obiettivo era raggiungere l’altopiano di Fra Mauro) era partita l’11 aprile 1970 dal Kennedy Space Center di Cape Canaveral. Dopo quasi cinquantasei ore dal lancio, si verificò un corto circuito che danneggiò due serbatoi di ossigeno.
Questo guasto e incidente dovette far cessare la missione e l’equipaggio fu costretto a trasferirsi nel modulo lunare Aquarius, rischiando la vita soprattutto nella fase di rientro. Dopo un blackout radio di oltre sei minuti il modulo di comando ammarò nell’Oceano Pacifico alle 13.07 del 17 aprile. una nave della marina statunitense fu pronta a ripescare e a mettere in salvo l’equipaggio.
La frase famosa, iconica anche nel film di Apollo 13 di Ron Howard: “Okay Houston, we’ve had a problem here” (“Okay Houston, abbiamo avuto un problema qui”), fu pronunciata da Jack Swigert, pilota del modulo di comando, per informare il Controllo Missione a Houston dell’incidente.
17 aprile 1970, come si salvarono
L’equipaggio originale dell’Apollo 13 era formato da il Comandante James A. Lovell, il Pilota del Modulo di Comando Ken Mattingly e il Pilota del Modulo Lunare Fred W. Haise. Modificato in seguito, sostituendo Ken Mattingly con Jack Swigert.
Sappiamo tutti come andarono le cose: furono quindi utilizzate sacche apposite per raccogliere le urine, l’acqua era stata razionata a circa 200 ml (l’equivalente di un bicchiere) per astronauta al giorno. Durante il periodo d’attesa per il programma di rientro, l’equipaggio perse nel complesso quattordici chilogrammi e Fred Haise ebbe fastidiosa infezione del tratto urinario.
La NASA chiese ai suoi astronauti di non usare il normale sistema di scarico quando dovevano fare la pipì, perché così facendo avrebbero potuto spostare la traiettoria di Apollo 13. Nella sfortuna, la fortuna volle che il viaggio di ritorno proseguì senza imprevisti, a parte gli sbalzi di temperatura nel modulo lunare e altri piccoli imprevisti.
Ormai prossimi all’atterraggio sulla Terra, i motori del modulo lunare furono accesi brevemente per due volte, in modo da ottenere la giusta angolazione per entrare nell’atmosfera senza schiantarsi nei suoi strati più esterni o entrarvi troppo velocemente. Dovevano stare attenti a non avere sollecitazioni che gli astronauti non avrebbero potuto reggere.
Il modulo di servizio fu sganciato per primo, così che gli astronauti potessero osservare i danni causati dall’esplosione; questi ultimi avevano interessato anche il motore principale, quello che la NASA non si era fidata a utilizzare per un rientro rapido dopo l’incidente.
Poi, gli astronauti lasciarono il modulo lunare, tornando a occupare il modulo di comando (la piccola capsula a forma di tronco di cono). Il modulo lunare, la loro scialuppa di salvataggio, fu sganciato e poco dopo si sfracellò nell’atmosfera (se le cose fossero andate come nei piani iniziali, la sua fine avrebbe dovuto essere sulla Luna).
Con lo scudo termico orientato verso il suolo, il modulo di comando iniziò il suo rientro sulla Terra, causando una prevista interruzione. Allo scadere dei quattro minuti richiesti per poter tornare a comunicare, i tecnici della NASA non ricevettero nessuna trasmissione. Le televisioni di tutto il mondo stavano seguendo in diretta l’evento, preoccupati che lo scudo termico non avesse retto e che il modulo di comando, con i tre astronauti di Apollo 13, si fosse polverizzato durante il rientro.
Passarono ancora due lunghissimi minuti prima che le comunicazioni fossero ripristinate e si sentissero le voci dell’equipaggio. Rallentato dai paracadute, il modulo di comando si tuffò nelle acque dell’oceano Pacifico meridionale; l’equipaggio fu recuperato dalla nave Iwo Jima della marina militare statunitense.
Il disastro e il salvataggio di Apollo 13 divenne uno degli eventi mediatici più importanti della seconda metà del Novecento, subito dopo quello dell’allunaggio avvenuto poco meno di un anno prima. Solo negli Stati Uniti si stima che 40 milioni di persone osservarono alla televisione il rientro sulla Terra dell’equipaggio, con decine di altri milioni di persone in giro per il mondo, le quali fecero altrettanto, in attesa di vederli riemergere dalla loro capsula spaziale.
Oggi, Apollo 13
Negli anni seguenti l’incredibile storia di Apollo 13 sarebbe stata raccontata in libri, documentari e film, diventato un evento storico immortalato per sempre. Il più famoso dei quali sarebbe stato Apollo 13 di Ron Howard con Tom Hanks nei panni di Jim Lovell e della sua tuta spaziale.
A oggi il film più conosciuto e apprezzato sul tema, e quello che ha spolverato nuovamente la vicenda.
La frase famosa: “Houston, we’ve had a problem” (“Houston, abbiamo avuto un problema”), pronunciata da Lovell dopo l’esplosione a bordo, fu modificata e resa al presente con “Houston, we have a problem” (“Houston, abbiamo un problema”); rendendo più drammatica e incisiva la scena.
Il film ebbe talmente successo che oggi quasi tutti ricordano la frase detta da Hanks e non quella che fu realmente pronunciata da Lovell.