Primo comandamento: non uscire.
È questo che sembra catturare l’obiettivo su finestre accese di abitazioni private nelle città deserte. La fotografia come canale d’accesso alla vita quotidiana delle persone che, in quella che pare ormai essere una condizione globale, si può catturare semplicemente dal palazzo di fronte: alle volte, stabilendo una collaborazione ‘a distanza’ che si fa gioco di approvazione tra fotografo e soggetti ritratti. Un accordo fatto di gesti che diviene posa consapevole come a sottolineare la voglia di essere documento di verità; come a dire ‘io resto a casa e continuo a vivere’.
Per la nostra rubrica fotografie di quarantena, eccoti l’approccio di alcuni creativi che hanno sfruttato l’obiettivo della macchina come mirino d’osservazione e fissato l’immagine di questo momento nella storia.
L’obiettivo si sofferma sulla vita che scorre
“Abbiamo lavorato giorno e notte nelle ultime settimane a Milano. Da quando l’epidemia COVID-19 è scoppiata in Italia, alla fine di febbraio, abbiamo documentato ogni giorno l’emergenza dal suo epicentro, la nostra Regione, la Lombardia…/“
Sono le parole di Gea Scancarello che assieme a Gabriele Galimberti (1977) ha portato a termine il suo progetto fotografico per National Geographic.
Lei scrive, lui fotografa. Insieme trovano un’angolazione descrittiva per documentare Milano: una città sospesa e in qualche modo riscoperta attraverso il filtro della separazione sociale. Al di la delle finestre, l’obiettivo si sofferma sulla vita che scorre, nonostante tutto.
Non soltanto finestre, ma balconi, androni, cortili, ballatoi condominiali, rampe di scale, serrande chiuse che raccontano di vite al rallentatore in un tempo che non scandisce i secondi, immagini di quei giorni trascorsi tutti uguali in spazi costretti che sono anche, consapevolmente, salvezza. Allora, l’obiettivo non diviene invasivo, anzi un confidente a cui mostrare le luci artificiali della sala da pranzo, l’abituale gesto commensale e l’arrivo interminabile del crepuscolo di un altro giorno fatto di noia, paura e voglia di ricominciare.
Simbolo stesso della genesi visiva, nonché spunto d’indagine e di sceneggiatura, sono tantissime le volte che la finestra è stata oggetto delle arti visive. Ci viene in mente, uno su tutti, Alfred Hitchcock e il film “la finestra sul cortile”: un fotografo costretto alla poltrona di casa per via del gesso alla gamba rotta, si diverte ad osservare i vicini – la loro vita quotidiana, le vicende intricate – e tutto il film viene ripreso dal suo punto di vista. Le scene, sono una visione continua di azioni viste alla finestra dalle quali si ricostruisce la storia. Come non pensare al mitico regista mentre osserviamo gli scatti di Giorgio Barrera (1969).
L’autore, in realtà, inizia il suo progetto “Through the Window” nel 2002 per terminarlo nel 2009 e oggi è tra le sue produzioni più note e apprezzate.
Sono scatti figli di una cultura visiva ben radicata che, a volte, ricorda lo stile fiammingo e altre, arriva a toccare note minimaliste senza compromettere lo stile – sempre coerente – che caratterizza la sua cifra. L’autore ci fa dono di centinaia di storie e immagini ambigue che paiono essere immaginazione. Viene da chiedersi: “ma che sta facendo?”
L’obiettivo di Gail Albert Halaban: i dirimpettai consegnano suggestioni e spunti
Per questo autore, l’approccio è di estrema ratio. Gail Albert Halaban, racconta a Vogue come i suoi progetti siano sempre studiati e come il processo creativo nasca dalla collaborazione dei soggetti: una forma di estetica relazionale e poi di scrittura scenica volta allo scatto perfetto. Per il suo progetto che comprende il lavoro su diverse città ha sottolineato:
“…avevo avuto bisogno di molta preparazione, ma giunto in l’Italia non ce n’è stato bisogno: nei quartieri si spargeva subito la voce, in tanti venivano a raccontarmi i gesti quotidiani di chi avevano osservato per anni, e s’offrivano di accompagnarmi a citofonare e a chiedere il permesso per la foto”.
Ecco allora, un approccio allo scatto fatto di cooperazione e relazione umana, suggestioni e spunti che provengono direttamente dalla fonte ma che non abbandonano razionalità e progettazione.
Diverso è per il tedesco Michael Wolf, protagonista della fotografia contemporanea, vincitore di due World Press Photo e scomparso purtroppo l’anno scorso all’età di 64 anni.
Ricordiamo il suo meritevole lavoro “Transparent City” come esempio calzante di una visione d’insieme in cui schiere compatte di palazzoni senza aria né prospettiva ci raccontano la vita metropolitana spiata, rubata dalle finestre trasparenti cui chiunque può accedere. Città trasparenti e fatte di vetri da cui mettere il mostra la vita, senza alcuna privacy. Le finestre, sono per lui immancabili icone di reportage che puntano al cuore di comunità complesse, cercando tracce di solitudini, relazioni, routine, ossessioni.
Insomma pare proprio che la fotografia abbia – da sempre – molto da dire riguardo la vita sociale, la vita privata e i comportamenti delle persone.
Ti abbiamo mostrato fotografi riconosciuti e illustri che con i loro scatti hanno accostato una ricerca personale alla loro cifra stilistica e un approccio totalmente diverso alla realizzazione del loro progetto. E tu, che immagine daresti a questa condizione? Quale sarebbe il tuo approccio al progetto fotografico?