Le Tsantsa, meglio conosciute come teste umane rimpicciolite, da sempre caratterizzano l’identità più profonda di determinate popolazioni sparse sul globo terrestre che hanno fatto di questo macabro rituale un’espressione fortemente caratterizzante della propria identità.
Le Tsantsa più conosciute sono quelle rinvenute in Melanesia o attribuite per lavorazione alle tribù d’istanza lungo il Rio delle amazzoni, nello specifico gli Shuar, individuabili sia in Ecuador che in Perù e che più di tutti fecero del macabro rito una propria e forte identità culturale.
Oltre alle espressioni citate, non è raro imbattersi in tentativi di emulazione, per lo più europei, facilmente individuabili per la non perfetta riuscita del procedimento, segno che evidentemente l’intero rituale a fatica fu indagato dai curiosi del vecchio continente travestiti da esploratori.
Alla conclusione del secondo conflitto bellico, vennero rinvenute alcune teste umane che la grandezza e lo stato di conservazione, senza dubbio fecero pensare a probabili esperimenti condotti nel tentativo di emulare la creazione di Tsantsa.
Successivi approfondimenti portarono a ritenere con sufficiente convinzione che gli esperimenti erano stati condotti sui resti di internati nel campo di concentramento di Buchenwald a pochi chilometri dalla più famosa cittadina di Weimar fino ad allora conosciuta per tutt’altra fama.
Uno di questi macabri reperti arrivò fin sul banchi della suprema corte nel Processo di Norimberga, a testimoniare se stessa e l’abominio avvenuto all’interno del campo, per il quale non poteva più riferire se non nelle sue stesse fattezze.
Come si prepara una Tsantsa
Il procedimento è stato a lungo e per lungo tempo studiato, data anche la grande curiosità che dai primi ritrovamenti le Tsantsa hanno destato negli avventurieri ed esploratori prima ma anche nei commercianti in un secondo momento che seppero sfruttarne il fascino forzatamente esotico che esse suscitavano nelle vecchia Europa.
La tecnica è anche semplice se vogliamo. La parte forse più seccante, perché dovrebbe essere portata a compimento con pazienza certosina, è lo scollamento della cute, facendo bene attenzione a non incidere troppo sulla zona del viso, da mantenere quanto più possibile nella sua integrità.
Occhi e bocca vanno rigorosamente cuciti ma dall’interno per far si che non abbiano ad intravedersi anche da vicino tratti di cuciture che fanno tanto grossolano.
Il tutto per permettere una facile quanto opportuna operazione di rimozione del cranio che non trovava altro impiego che essere gettato via.
Il passaggio successivo consisteva in una vivace bollitura in acqua di sorgente arricchita con corteccia d’albero ricca di tannini, il tutto al fine di raggrinzire la pelle e infonderle la tipica colorazione scura della Tsantsa.
L’ultima operazione consisteva nello sfregamento dell’intera testa ormai rimpicciolita con carbone vegetale; rituale questo che aveva il compito di impedire all’anima vendicatrice di uscire dalla Tsantsa.
Terminati i riti per la realizzazione della Tsantsa, l’intera tribù era chiamata a festeggiare, anche qui con un rituale ben preciso scandito da tempistiche e azioni sempre uguali, fatte di messaggeri, canti in cui il ruolo delle donne della tribù benché attivo in un secondo tempo, era parte integrante della celebrazione.
Le teste dei nemici diventavano Tsantsa
I riti relativi alla trasformazione in Tsantsa delle teste erano inizialmente un’espressione religiosa; nel tempo lo sviluppo di questa pratica si concentrò di più sulla figura del nemico che una volta ucciso veniva così ridotto quasi a volerne bloccare e imprigionare oltre al corpo ormai morto anche lo spirito, quasi ad auspicare per la tribù del vincitore, una sorta di rafforzamento della vittoria.
Si sa per certo che tali cimeli venivano conservati da colui che ne era stato il vincitore nello scontro ma poco o nulla si sa sulla successiva conservazione. Probabilmente non venivano trattenute a lungo e smaltite senza troppi ripensamenti una volta evidentemente esaurito il loro compito rituale.
Nei primi anni del novecento una malsana impennata della richiesta di Tsantsa nei mercati internazionali del tempo, fece bruscamente impennare la macabra produzione, con tutta la dietrologia che concerneva il reperimento della materia prima da lavorare.
Ben presto però si pose fine a questo macabro commercio ormai scevro delle sue componenti rituali e la quasi totalità degli stati del mondo dichiarò fuori legge l’importazione di tali reperti, decretando cosi la fine di fatto di tale pratica.
Almeno alla luce del sole.