Hai presente quei luoghi che sembrano aspettare qualcosa? Non un treno, né un turista. Ma forse una domanda. O uno sguardo capace di capire. San Severino di Centola, in provincia di Salerno, è uno di questi. Un paese abbandonato, ma non dimenticato. Anzi, profondamente presente, se sai ascoltare. Basta uscire dal traffico della costa cilentana, salire qualche curva, e trovarsi davanti a uno dei borghi più affascinanti e più veri dell’Italia interiore.
Un paese abbandonato ma non spento

San Severino non è stato “distrutto” da un terremoto, né sepolto da una frana. È stato lasciato, per ragioni pratiche. Il terreno cedeva, la vita diventava difficile. Così, negli anni Sessanta, gli abitanti decisero o furono costretti a trasferirsi più a valle. Nacque la nuova San Severino, più moderna, più comoda, ma priva del fascino antico del borgo originale.
E il paese vecchio? Rimasto lì. Un grumo di case in pietra arroccate su uno sperone, circondato da colline boscose e con una vista che arriva fino al mare, nei giorni più limpidi. Le case, molte delle quali ancora in piedi, sono oggi vuote. I tetti in parte crollati, le porte sprangate, le finestre che guardano senza essere guardate.
Ma dire che sia un paese morto sarebbe ingiusto. Perché non tutto si misura in presenza fisica. A volte, la memoria basta a tenere vivo un luogo. E qui, la memoria è ovunque.
Una collina che osserva e custodisce
San Severino vecchio è costruito su un crinale che domina la valle del fiume Mingardo. Da lassù si vede la ferrovia che taglia la valle, i treni che passano lontani, ignari. Si vedono anche le tracce della nuova urbanizzazione, i campi coltivati, le strade. Ma il borgo rimane in alto, come un testimone che osserva tutto senza intervenire.
Camminare tra le sue vie è un’esperienza singolare. C’è un silenzio profondo, ma non oppressivo. Un silenzio che lascia spazio ai pensieri. Si ha la sensazione di essere ospiti, non visitatori. Ogni pietra, ogni gradino, ogni muro scrostato ti guarda. E lo fa senza giudicare. Ti invita solo a rallentare. A sentire.
La fiaccolata di agosto: il ritorno di una comunità
Una volta all’anno, San Severino rinasce. O forse, si risveglia. Succede ad agosto, quando la comunità organizza una fiaccolata serale che risale il sentiero dalla nuova San Severino fino al borgo antico. Decine di persone, torce accese, canti, racconti, emozioni. Non è una rievocazione storica. È un atto d’amore collettivo.
Ex abitanti, figli e nipoti di chi viveva lì, giovani che non ci sono mai nati ma sentono un legame, escursionisti, curiosi. Tutti insieme, in silenzio o in cammino, tra quegli edifici vuoti che per una sera tornano a essere casa. È il momento in cui il paese smette di essere solo un luogo e torna a essere un tempo.
Cosa resta tra le rovine
Ruderi? Certo. Ma non solo. Restano segni, dettagli che raccontano più di mille parole. L’arco di una porta decorata, una finestra incorniciata da mattoni rossi, una scala che sale nel vuoto. Restano le vie acciottolate, i resti della chiesa, qualche edicola votiva ancora intatta. E poi, la vista.
La vista è forse la cosa più potente di San Severino. Spalanca l’anima. Dal punto più alto si vedono le curve del fiume, il tracciato della ferrovia, le colline che digradano verso il Tirreno. La luce cambia di continuo, i colori mutano, le ombre si allungano. È un paesaggio che ti si stampa addosso, anche se non lo fotografi.
Una destinazione per chi cerca qualcosa di vero
San Severino non è un luogo facile. Non ha comfort, né attrazioni classiche. Niente bar, niente souvenir, nessuna guida in costume medievale. È una destinazione per chi ama i vuoti pieni di senso, per chi non ha paura del silenzio, per chi sa che anche l’assenza può essere eloquente.
Il sentiero che porta al borgo è ben segnato, ma richiede scarpe comode. Non è lungo, ma è tutto in salita. E non c’è un punto d’accoglienza: ci si arriva e basta. E questo è il bello. Non ci sono filtri. Solo tu e quel paese che ti aspetta. E che, in un certo senso, ti somiglia. Perché anche noi, a volte, abbiamo parti di noi che abbiamo lasciato indietro. Ma che non abbiamo mai dimenticato.
Un’arte del ritorno

C’è qualcosa di profondamente artistico in San Severino. Non nel senso estetico anche se è bellissimo ma nel senso esistenziale. Racconta cosa vuol dire restare, e cosa vuol dire andarsene. Racconta il tempo che scorre e quello che si ferma. Racconta la memoria come forma di resistenza. E ogni pietra, ogni muro crollato, ogni fiaccola accesa in agosto, sono tracce di un’opera collettiva. Un’arte fatta non per essere venduta, ma per essere vissuta.
E il futuro?
Il borgo è oggetto di alcuni progetti di valorizzazione, ma resta fuori dai grandi circuiti. E per molti versi, è un bene. Non tutti i luoghi devono essere convertiti in “destinazioni turistiche”. Alcuni devono restare così come sono, per conservare quella verità che altrimenti andrebbe persa.
Forse San Severino di Centola non tornerà mai a essere un paese abitato. Ma continuerà a essere un punto fermo per chi lo porta nel cuore, e un’esperienza preziosa per chi lo incontra per caso. O per scelta.

Un invito
Vaici. Ma senza aspettarti nulla. Senza aspettarti di “fare qualcosa”. Lascia che sia il luogo a parlarti. A modo suo, con i suoi silenzi, i suoi rumori leggeri, i suoi spazi vuoti. Porta rispetto, porta curiosità. E magari, se puoi, partecipa alla fiaccolata. Ti resterà dentro come poche altre cose.
E tu, ci sei mai stato? Hai mai camminato tra le rovine di un paese che non vuole essere dimenticato? Raccontacelo nei commenti o vieni a parlarne su Instagram. San Severino non è solo un luogo: è una domanda aperta.