Dall’11 al 26 dicembre 1792 i deputati continuarono a discutere sulla sorte del cittadino Luigi Capeto, ex Re Luigi XVI, sotto accusa per tradimento verso la Nazione e per cospirazione contro le libertà pubbliche. Finalmente giunge l’ora delle supreme decisioni, il presidente della Assemblea, Vergniaud, legge alla Convenzione le tre fatidiche domande, alle quali ogni deputato dovrà rispondere per appello nominale, e motivando il proprio voto.
Interrogatorio di Luigi XVI, il 26 dicembre 1792, nella sala della Convenzione
L’11 dicembre 1792, in seno al parlamento della Convenzione nazionale, ebbe inizio il processo a Luigi XVI. Il sovrano era stato deposto quattro mesi prima in seguito a un’insurrezione dei sanculotti (un appellativo spregiativo dato dagli aristocratici ai rivoluzionari perché portavano i calzoni lunghi anziché quelli corti detti culotte), il popolo di Parigi che si ribellò. Fu allora che incominciò la fase più radicale della Rivoluzione francese.
Luigi XVI era accusato di aver cospirato il popolo e la Francia restaurare l’assolutismo (Ancien Régime), quasi all’unanimità i deputati votarono la sua colpevolezza, dividendosi successivamente in merito alla pena da applicare.
Nelle ultime ore della sessione notturna del 16 gennaio 1793 la maggioranza dei congregati fu concorde nel decretare la morte del monarca. Cinque giorni più tardi in Place de la Révolution (oggi Place de la Concorde) venne eretta la ghigliottina, dove venne scortato il carro di Luigi fino al patibolo. Prima che la lama cadesse sul suo collo, il sovrano disse: “Muoio innocente. Perdono i miei nemici e spero che il mio sangue sia utile ai francesi e plachi la collera di Dio”.
La condanna del re e la sua scomparsa avvenne in un periodo specifico per la Francia rivoluzionaria, da una parte le truppe francesi pativano pesanti sconfitte contro le potenze assolutistiche che gli avevano dichiarato guerra l’anno precedente; dall’altra, nella regione della Vandea, era scoppiata una grande ribellione controrivoluzionaria, spingendo il governo repubblicano a inviare migliaia di soldati per cercare di sopprimerla.
In tutto il Paese la guerra aveva provocato una carestia, che a sua volta aveva portato a numerose rivolte. In questo difficile contesto, tra i circoli rivoluzionari, si consolidò l’idea che queste difficoltà dipendessero dall’azione occulta dei nemici della Rivoluzione: ex aristocratici, e il clero, i quali non avevano accettato la legislazione repubblicana ostile alla Chiesa; ma c’erano anche individui che approfittavano degli eventi per arricchirsi, gli accaparratori, insomma, colore che rivendevano i prodotti di prima necessità a un prezzo maggiorato di quanto li avevano pagati.
Durante il dibattimento, che durò dal 26 dicembre 1792 al 6 gennaio 1793, i girondini proposero invano l’appello al popolo. Il processo fu riaperto il 14, e il 15 ebbero inizio le votazioni. Il quesito della colpevolezza fu approvato all’unanimità, l’appello al popolo invece venne respinto.
Il 16 ebbe luogo il terzo appello nominale per la morte contro la detenzione o la morte condizionale. Rifiutato l’appello alla nazione chiesto dal re, il 18 la proposta girondina di rinviare l’esecuzione fu respinta. La sera del 20 il condannato rivide per l’ultima volta la sua famiglia, poi si confessò. La mattina del 21, alle 10.22, l’esecuzione era compiuta.
Il seguito di Luigi XVI
Luigi XVI ebbe quattro figli: Maria Teresa Carlotta, nata nel 1778, che sposò il duca d’Angoulême; Luigi, il primo delfino, nato nel 1781 e morto nel 1789; Carlo Luigi, duca di Normandia, il futuro Luigi XVII, nato nel 1785, e una figlia, nata nel 1786, che morì dopo un anno.
Fu uomo di profonda onestà, di gusti semplici e modesti. Desiderò sinceramente di migliorare le condizioni della Francia e di favorirne il progresso, sebbene ripugnasse alle audacie dei novatori, non fu intollerante (lo dimostrò l’editto del 1787 con il quale si rendevano i diritti civili ai non cattolici).
Le sue qualità di buon padre di famiglia avrebbero fatto di lui un ottimo re costituzionale in momenti normali, ma gettato nel tumulto di un’enorme crisi politica, sociale e morale, non riuscì ad essere determinate nelle sue decisioni, come un Luigi XIV e un Enrico IV, non seppe che ricorrere a mezze misure, le quali non servirono a risolvere la situazione, allarmando i privilegiati senza contentare i riformatori.
Il suo carattere fiacco e apatico gli impedì d’imporsi alla regina e di reprimere le cabale di corte. Di fronte alla pazza politica degli emigrati Luigi XVI non seppe dare loro direttive più sagge, o, se le diede, non furono realmente ascoltate.
Le sue più belle reazioni, come la rivolta del credente contro i deereti anticattolici, lo sdegno del Francese accusato di ordini fratricidi, la dignità dell’innocente dinnanzi ai giudici e sul patibolo, vennero più considerate azioni umane che regali.
Dopo la morte della monarchia
Il Terrore, il culmine della Rivoluzione Francese
Nel 1793 la Rivoluzione francese entrò nella sua fase più drammatica, minacciati dall’invasione straniera e da una controrivoluzione interna, i capi degli insorti diedero il via a una terribile spirale repressiva.
Quando il 10 marzo 1793, nell’anniversario della presa del palazzo delle Tuileries, i sanculotti si rivoltarono contro l’assemblea, i capi rivoluzionari decisero che bisognava evitare a tutti i costi il ripetersi di una nuova strage. Purché il popolo non si facesse giustizia da solo, la Convenzione introdusse una serie di leggi e fondò alcuni organismi incaricati di arrestare e giudicare i nemici della Rivoluzione. Nacque così il regime del Terrore, uno dei grandi leader del momento, Danton, giustificò in una sola frase la nuova tappa politica: “Siamo terribili per dispensare il popolo dall’esserlo”.
Il Grande terrore non fu altro che il Terrore con un altro passo per entrare nella fase di maggiore recrudescenza, a servire da detonatore furono due attentati avvenuti a Parigi il 22 maggio, ad appena poche ore di distanza l’uno dall’altro. Prima un ex servitore sparò contro Jean-Marie Collot d’Herbois, presidente della Convenzione, che si salvò.
Quasi contemporaneamente una giovane di vent’anni fu arrestata davanti alla casa di Robespierre mentre si preparava a uccidere il quello che lei definiva il tiranno, come confessò in seguito. Entrambi gli episodi, esaltati dalla propaganda di Robespierre, aggravarono il clima di paranoia che si viveva nei circoli del potere e furono il pretesto per misure ancora più estreme contro i cospiratori.
Il 10 giugno venne promulgata una legge con cui si riformava il Tribunale rivoluzionario affinché punisse in modo più efficace i nemici del popolo. Gli accusati si videro privati del diritto a un avvocato, si autorizzò perfino l’emissione di condanne senza prove materiali, sulla sola base della intima convinzione di giuria e giudici.
Il risultato fu terrificante: nei suoi quattordici mesi di esistenza il Tribunale rivoluzionario di Parigi aveva messo a morte 1.250 persone, in seguito alla nuova legge, in sole sette settimane ne condannò 1.375. Nell’ultima fase le esecuzioni giornaliere passarono da tre a quasi trenta, tante che la ghigliottina venne spostata a est della città per facilitare lo smaltimento dei cadaveri.
Nessuno si sentiva più al sicuro, nemmeno quei giacobini che avevano giocato un ruolo attivo nell’applicazione del Terrore. Un gruppo di deputati, con Fouché e Tallien in testa, ordì un piano per spodestare Robespierre. Il 26 luglio l’incorruttibile si rivolse alla Convenzione per denunciare la presenza di cospiratori in seno all’assemblea e ai comitati, chiedendo una nuova depurazione sanguinaria.
Tuttavia, quando vi tornò l’indomani, un coro di voci lo accolse gridando “abbasso il tiranno!”. Alla fine la Convenzione votò all’unanimità per il suo arresto, il pomeriggio seguente Robespierre e una ventina di suoi seguaci furono portati davanti al tribunale, il quale li condannò in base a quel processo per direttissima voluto proprio dalla terribile legge dell’aprile precedente. La ghigliottina era tornata in Place de la Révolution per mettere fine al Terrore.