Flavio Bucci: attore, folle, bambino, prerogativa questa dei veri artisti. Completamente immerso nel mondo del Teatro e del Cinema poichè per lui “Il mestiere dell’attore è un grande gioco da bambini ed è meraviglioso”. Una fame di conoscenza della vita portata in parte da quella che lui definisce “l’irregolarità del mestiere” che considera uno “strumento di conoscenza” che lo porta a sondare tutti gli stati dell’anima, anche quelli più aberranti. Il tutto vissuto con grande schiettezza e sincerità. Si è spento il 18 febbraio a Passoscuro all’età di 72 anni. Stroncato da un infarto, si era ridotto in miseria forse proprio per quella fame di vita che egli definiva come “una somma di errori” per la quale non aveva alcun rimpianto, ne’ chiedeva assoluzioni e che tirando le somme concludeva così, quasi come un “Suonatore Jones” del teatro: “Ho amato, ho riso, ho vissuto…vi pare poco?”
“Non si può aver tutto, se non quando non si ha più niente” e Bucci come Cotrone de “I Giganti della montagna” rappresentato nel 1979 al Teatro Carignano di Torino con la regia di Mario Missiroli, tocca tutte le estreme conseguenze di un sogno. Con la coerenza e la determinazione del sognatore che ha scelto consapevolmente il suo percorso di artista e di uomo esplorando un mondo di fantasia, poichè come egli stesso afferma: “la fantasia è l’unica parte dell’essere umano che è ingestibile”.
Nacque a Torino nel 1947, da una famiglia di meridionali, padre molisano e madre pugliese, ma ben presto il suo interesse si indirizzò verso lo spettacolo, poichè ogni volta che marinava la scuola andava spesso al Teatro cinema Maffei: “Per un ragazzino della mia età all’epoca il Teatro e l’avanspettacolo costituivano “Il Pianeta Terra, il varietà e le ballerine la sessualità” ricorda l’artista.
Si formò allo Stabile di Torino. Ne 1968 venne a Roma ed entrò in contatto con Gian Maria Volontè che considera come uno dei suoi maestri, quasi “un fratello maggiore”. Esordì nel cinema nel 1971 con Elio Petri altro grande maestro con La classe operaia va in paradiso e sempre con lo stesso regista nel 1973 fu protagonista nel ruolo di Total ne La proprietà non è più un furto.
Nel 1976 lavorò con Giuliano Montaldo che considera “persona grandissima e galantuomo” ne L’Agnese va a morire e nel 1977 nel ruolo di un pianista cieco in Suspiria di Dario Argento, un esponente di un cinema “folle, visionario, onirico”. Memorabile il ruolo di Don Bastiano soprattutto nel monologo prima dell’esecuzione, ne Il Marchese del Grillo di Monicelli, per il quale l’attore nutre una profonda stima per la sua grande umiltà, caratteristica questa dei grandi artisti e dei grandi intellettuali. Particolarmente legato al film L’amante dell’Orsa maggiore (1972) di Valentino Orsini che consacrò la sua grande e sincera amicizia con Alessandro Haber che aveva già incontrato ancora giovane sul set di Ligabue nel 1977.
Il 1977 fu l’anno che lo consacrò al grande pubblico con l’interpretazione del pittore Ligabue, lo sceneggiato televisivo trasmesso in tre puntate e ispirato da un racconto in versi di Cesare Zavattini che ne curò anche la sceneggiatura. La regia era di Salvatore Nocita. L’attore ricorda questa esperienza come una “fatica psico fisica immane”. Complesso anche il lavoro di scavo nel personaggio, soprattutto nel rappresentare la dimensione animalesca del pittore che in una battuta dello sceneggiato recita: “Io a volte mi sento più una bestia che un uomo.” Egli si preparò molto guardando dei documentari sulla vita appartata e solitaria del pittore emiliano. Inoltre riconobbe la grandezza di Zavattini, “uno dei grandissimi scrittori italiani, sempre sorridente, che va portato ai giovani come esempio insieme a De Sica e Giuseppe De Santis, i grandi del Neorealismo italiano”. La sua profonda e sincera interpretazione dell’artista emiliano oltre che un notevole impulso per l’arte attoriale, fu un grande stimolo per i critici dell’arte che riscoprirono questo pittore dimenticato e messo ai margini.
Nonostante il grande successo portato da questo sceneggiato, Flavio Bucci rimarrà sempre molto legato a Diario di un pazzo tratto da Gogol. Francesca Targa, attrice e mia collega di Università di Roma Tre della facoltà di Lettere con indirizzo della comunicazione letteraria e dello spettacolo descrive così quel giorno magico in cui scoprì un attore con la “A” maiuscola : “l’attore che lo interpretava era a due passi da me e potevo vedere il fondo dei suoi grandi occhi neri penetranti e veri. Fu un’esperienza devastante, intensa e unica che mi condusse nei meandri della follia toccandone con mano miserie e ironie. Restammo tutti senza parole. Mi emozionai più volte, sentii brividi veri lungo la schiena e alla fine piansi, tanto. Il miracolo dell’immedesimazione e della catarsi si era compiuto e quell’ attore mi aveva conquistata a tal punto che da allora non smisi più di seguirlo.” Anche il Dottore di ricerca presso L’INAF Roberto Peron ricorda l’immagine di Bucci “Legato con la camicia di forza, su di un letto d’ospedale. Le luci si sono spente, e dopo un attimo – nel buio ha lanciato un urlo lancinante. Ne son uscito con la pelle d’oca”. Queste le testimonianze della mia generazione di quarantenni, ancora troppo piccoli per conoscerlo in Ligabue. Il teatro, nella sua precarietà e transitorietà si nutre infatti del mosaico delle memorie degli spettatori. In un documento del 1984 reperito sul sito del Cssudine, il regista Mario Moretti, che diresse Bucci esprime la sua idea sull’opera come una “poetica del caos in cui la logica è sostituita dalla fantasia e l’ordine dalla stravaganza dell’immagine”.
Tra le altre opere teatrali che arricchì del suo grande talento e fisicità ricordiamo Il fu Mattia Pascal, adattamento di Tullio Kezich, regia di Marco Mattolini nel 1992 e nel 1995 Uno, Nessuno e Centomila, versione teatrale di Giuseppe Manfridi, regia di Marco Mattolini; nel 1998 Chi ha paura di Virginia Woolf, sempre per la regia di Marco Mattolini.
Nonostante le vicissitudini degli ultimi anni che non ho intenzione di nominare per rispetto dell’artista, l’attore ha confermato la sua voglia di rimettersi in gioco e la sua grande fame di vita con due opere in cui si racconta: E pensare che ero partito così bene, regia di Marco Mattolini e il docufilm Flavioh di Riccardo Zinna, grande artista che elaborò l’idea di percorrere la vita di Flavio Bucci “On the road”. Grande l’entusiasmo di Bucci “Il viaggio nel camper non l’ho mai fatto…te pare poco?”.
E così nei pressi del mare l’artista vola libero verso la sua affamata e irriverente libertà espressiva e si congeda dai suoi spettatori.