Artemisia Gentileschi ebbe i suoi natali nella città eterna l’otto del mese di luglio nell’anno 1593.
Figlia di Orazio Gentileschi, un apprezzato pittore di ispirazione caravaggesca, fin da piccola Artemisia Gentileschi mostrò un innato interesse per il mondo dell’arte.
L’aver perso la madre a soli 12 anni, la portò a diventare più matura per la sua età, avendo ella dovuto prendere in casa il posto della mamma nelle questioni domestiche e nell’accudimento dei cinque fratelli più piccoli.
Il padre però, ben conscio ed orgoglioso del talento che la piccola Artemisia dimostrava, non si oppose a che essa frequentasse la sua bottega d’arte, situazione se non proibita alle donne in quell’epoca certamente ostacolata ma che Artemisia Gentileschi potè portare avanti grazie alla benevolenza del padre in tal senso.
Era una Roma, quella in cui visse Artemisia Gentileschi, culturalmente e socialmente vivace
Tanti artisti venivano richiamati verso la città eterna poiché le committenze erano davvero molte e c’era necessità di molta manodopera per la realizzazione dei mille progetti che erano arrivati a riguardare quasi ogni angolo della città, tra chiese da abbellire internamente e facciate da adeguare all’esplosione artistica e culturale del momento.
Artemisia Gentileschi mosse i primi passi nel mondo dell’arte accompagnata attimo dopo attimo dall’insegnamento del padre che volle iniziarla all’indipendenza.
Imparò a costruire da sola i suoi pennelli dalle setole animali, a lavorare i pigmenti per farne pittura e ad estrarre gli oli.
Solo dopo aver acquisito perfettamente queste tecniche potè cimentarsi con maggiore tempo all’esercizio pittorico ed in soli tre anni dimostrò di aver acquisito una padronanza non comune per una ragazzina, alla stregua di artisti maturi.
In una lettera alla Granduchessa di Toscana datata 1612 il padre usò con orgoglio queste parole:
Questa femina, come è piaciuto a Dio, avendola drizzata nelle professione della pittura in tre anni si è talmente appraticata che posso adir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatte opere che forse i prencipali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere
Un talento e un’applicazione allo studio ormai riconosciuta ma che il padre volle ancora di più che perfezionasse, chiedendo per questo, all’amico e apprezzato artista Agostino Tassi, di prenderla con sé affinché apprendesse al meglio la tecnica della prospettiva.
Per Artemisia Gentileschi questa nuova esperienza fu causa di un evento tanto imprevedibile quanto aberrante: subì uno stupro.
Egli stessa usò queste parole per descriverlo:
Un evento che segnò per sempre la vita privata e l’inclinazione artistica della ragazza, la quale da quel momento, pur essendo stata istruita alla veridicità delle rappresentazioni, in comprovato stile caravaggesco, da quel momento impresse un’impronta maggiormente realistica a tutta la sua produzione nella quale erano ricorrenti simbolismi o tratti espliciti di ciò che le era accaduto. Nella tela Giuditta che decapita Oloferne, Artemisia Gentileschi sembra riversare tutto il suo risentimento verso il torto subito che oltre all’atto in sé, trovò ulteriore motivo di dolore nel processo che ne seguì, nel quale l’umiliazione subita dalla giovane pittrice fu altrettanto devastante. La tela riproduce con realismo estremo, l’esatto momento in cui Oloferne non ha più scampo, con la testa grondante di sangue ben ferma tra le mani di Giuditta, l’espressione della quale non viene riprodotta da Artemisia Gentileschi con il benché minimo sussulto emotivo. Di questo quadro Artemisia Gentileschi ne ha dipinte due versioni. La prima, conservata nel Museo nazionale di Capodimonte, è stata dipinta poco dopo il terribile evento subito dalla pittrice e presenta nelle sue fattezze un’immagine della scena più ravvicinata, con Giuditta che indossa un abito blu di una tonalità molto accesa e sgargiante è anche per l’abito dell’ancella che la aiuta a tenere fermo Oloferne. La seconda tela raffigurante Giuditta e Oloferne è conservata agli Uffizi e benché la scena sia la stessa, la prospettiva con cui Artemisia Gentileschi la dipinge, seppur di poco ma cambia. Sono passati ormai otto anni dall’evento, tempo sicuramente in cui la pittrice ha potuto o dovuto suo malgrado rapportarsi in modo diverso a quel ricordo. La scena acquista ampiezza, gli abiti delle donne raffigurate mancano di quella brillantezza che invece irrompe nella versione precedente. Giuditta ha un abito molto più ricco di particolari, di un color giallo oro, mentre l’ancella ha una veste più dimessa come era d’uopo nel suo rango; compaiono qui invece le gambe di Oloferne ma l’espressione di Giuditta non sembra essere mutata. Ancora quello sguardo deciso sull’azione di decapitare Oloferne, anche se molta parte della critica, in quest’ultima versione, ha visto scomparire una sorta di velato ghigno di soddisfazione presente nella tela partenopea. Giuditta rimane comunque ritratta con il volto concentrato quasi impassibile, dando così alla tela un significato profondo relativo al messaggio che l’artista ha voluto con forza trasmettere, con o senza ghigno. Tormento che sarà rimasto nel suo cuore, nella sua mente fino alla sua morte e nelle sue tele per sempre. |