Noi, quelli “fortunati“, che la pandemia abbiamo potuto viverla da casa, abbiamo passato il tempo attraverso le Fasi indicate dal Governo. La Fase 1, quella per tutti più dura, obbligati a stare chiusi in casa, limitando le uscite e non potendo vedere i nostri cari. Ora la Fase 2, con meno restrizioni, ma sempre con l’occhio vigile per evitare di ripiombare nella 1, in attesa di quella Fase 3 che potrà davvero farci tirare un sospiro di sollievo.
Nel periodo più duro della pandemia, vari artisti hanno fatto del loro meglio per sostenere le persone a casa e per ringraziare il personale sanitario che si è prodigato nelle cure (uno su tutti Banksy che ha omaggiato i personale sanitario inglese con una sua opera dove li ritrae come novelli supereroi). Fabio Oriani ha voluto fare di più, si è letteralmente “sporcato le mani” andando a vedere e documentando in prima persona quello che succedeva nelle terapie intensive.
Andiamo a scoprire con lui questo mondo sospeso, dove ogni giorno il personale sanitario si deve confrontare con la vita e la morte in quella che lo stesso Oriani definisce #nessunafase.
#nessunafase, Fabio Oriani ci racconta il suo viaggio
Fabio Oriani è un fotografo milanese, muove i primi passi nel mondo della fotografia attorno al 1990 e ad oggi ha all’attivo diversi servizi in collaborazione con varie realtà dello sport, dell’industria e dello spettacolo. Le sue pagine Instagram Fabio Oriani e Fabio Oriani Images sono ricche dei suoi scatti, sia on stage che nel suo studio fotografico. Con #nessunafase ha voluto dare testimonianza della situazione nelle terapie intensive. Ce ne parla qui di seguito.
Cos’è #nessunafase?
#nessunafase è un lavoro nato dalla mia permanenza all’interno di due strutture ospedaliere della Asst Santi Paolo e Carlo di Milano, a contatto diretto con le unità Covid. Il nome stesso deriva dalla consapevolezza che il personale sanitario non ha avuto e non ha “fasi” in uscita dalla pandemia.
Cosa ti ha spinto a fare questo reportage?
Al di là della proposta di documentare da parte delle strutture, ciò che mi ha spinto ad accettare è stata la forte volontà di testimoniare, di “lasciare un’impronta di questi giorni” come cronista e come uomo.
Quanto è stato difficile confrontarti con questa realtà?
In un primo momento è stato inevitabile farsi abbracciare da mille emozioni e la pressione in alcuni frangenti è stata molta. La morte, la sofferenza, l’impotenza a volte, di fronte ad un nemico così subdolo sono state sensazioni davvero incisive.
Come verrà presentata al pubblico #nessunafase?
La speranza è che presto possa nascere un volume e da qualche ora, mentre ti scrivo, ho ricevuto la proposta per una mostra. Ne serberò una parte per la diffusione web.
Cosa ti ha lasciato questa esperienza?
La netta consapevolezza che l’essere umano ha in sé forze impossibili da rilevare in circostanze normali. Dovremmo ricordarci sempre di quanto si potrebbe essere migliori.
C’è una foto che ti ha colpito particolarmente o quella che non hai voluto scattare?
Una foto di #nessunafase che mi ha lasciato il segno è il ritratto di un paziente, piuttosto grave, che seppur semi-incosciente, cercava l’aria socchiudendo la bocca con fatica, con fame vera e propria. Per quanto riguarda la foto da non scattare, ho evitato le nudità esplicite (i pazienti nelle terapie intensive sono nudi per favorire la traspirazione), per il resto ho fotografato davvero tutto ciò che ritenevo parte del racconto.
Alcuni degli scatti si possono vedere qui sotto, così come la foto di Fabio Oriani, ma non il classico ritratto da fotografo, Fabio ha voluto darci uno scatto fatto alla fine di una giornata in reparto, mostrando i segni che il personale medico porta quotidianamente da ormai quasi quattro mesi, un’ulteriore testimonianza di quanto sia difficile la vita di chi lotta ogni giorno per aiutare a guarire e ridare speranza.