Oggi parliamo di Henri Cartier-Bresson, (1908- 4 agosto 2004), considerato “l’occhio del secolo”, per la sua capacità di intrappolare nelle sue foto l’essenza di un intero secolo della società dei suoi giorni.
Attraverso la sua fotografia surrealista, l’artista riuscì ad inglobare nelle proprie opere il concetto di inconscio, attraverso diversi elementi presi singolarmente che fondendosi tra di loro crearono degli accostamenti inconsueti e magici, che nella realtà sarebbero impossibili da conciliare.
Henri Cartier-Bresson aspettava “l’attimo” e con la sua immancabile e fedele amica macchina fotografica “Leica”, scattava foto in bianco e nero proprio perché capace di dare forma e sostanza al soggetto e, soprattutto, perché era un elemento emotivo di astrazione della realtà.
“Non ci penso alla fotografia. Non ci penso mai. La faccio, è diverso.”
“Il tiro fotografico.. scattare foto è la mia passione. Non mi interessa il risultato solo il tiro” – Henri Cartier-Bresson
Henri Cartier-Bresson: il fotografo dell’attimo
«è stata quella foto a dar fuoco alle polveri, a farmi venir voglia di guardare la realtà attraverso l’obiettivo».
Henri Cartier-Bresson non nacque con la passione della macchina fotografica, ma era completamente disinteressato alla fotografia. Il suo interesse principale era la pittura surrealista che lo portò a studiare e frequentare l’ambiente dei surrealisti francesi.
Fu l’incontro con una foto di Martin Munkacsi a far nascere in lui l’interesse. Iniziò così a comprare macchine fotografiche in pochi anni e divenne inseparabile con la sua Leica, la quarta macchina fotografica acquistata, che lo accompagnò da lì in poi sempre nei suoi viaggi fotografici.
Il suo rapporto con la fotografia è strano e altalenante. Si sviluppò improvvisamente così come improvvise sono le foto che amava scattare. A Henri interessava catturare l’istante, la realtà in un secondo e amava il bianco e nero perché sottolineava ancora di più il momento emotivo-astratto.
Questa giovane passione lo portò a viaggiare in tutto il mondo Cina, Messico, Cuba, India, Unione Sovietica, Giappone ecc.. fino ad arrivare in Italia dove si fermò in Abruzzo colpito dalle donne scannesi e in Sardegna per un lavoro con il giornale Vogue.
La sua attività fotografica durò per ben 30 anni fino a quando nel 1968 Henri Cartier-Bresson si rese conto che era il momento di ritornare dalla sua vera passione: la pittura.
«In realtà la fotografia di per sé non mi interessa proprio; l’unica cosa che voglio è fissare una frazione di secondo di realtà».
Si dedicò così ai suoi dipinti e ai soli ritratti fotografici. Successivamente creò insieme alla moglie e alla figlia la Fondazione Henri Cartier-Bresson dove sono esposte tutte le sue raccolte fotografiche.
Mostre dedicate: “Le Grand Jeu”
Molte sono le mostre dedicate al noto fotografo. Nel 2020 ebbe molto successo a Venezia a Palazzo Grassi–Punta della Dogana la mostra intitolata Henri Cartier-Bresson “Le Grand Jeu”.
La mostra “Le Grand Jeu”, evidenziato da quel “Jeu” del titolo, gioco appunto, che in francese si avvicina a “je” cioè io, fu realizzata sulla selezione di alcune delle opere più importanti e significative dell’artista, per l’esattezza 385, già scelte in precedenza dall’artista stesso in collaborazione con due suoi amici collezionisti, i coniugi Jean e Dominique de Menil, per la sua Master Collection.
Proprio da “Le Grand Jeu” mette in risalto il gioco con il quale l’ideatore Matthieu Humery si divertì a strutturare questa mostra, affidando a cinque figure di spicco, la selezione indipendente e segreta di 50 opere ciascuno dell’artista, scelte dalle 385 della Master Collection, affidando loro anche la curatela di due sale espositive a testa, cosicché tutte le sale del primo piano furono riempite non solo dalle opere dell’artista, ma anche dalle cinque visoni diverse delle opere stesse.
“È stupendo che, da questo Grand Jeu, escano cinque testimonianze, intime e colte, in ognuna delle quali si può facilmente riconoscere la firma” scrisse Humery nel catalogo della mostra.
Una selezione fatta dal collezionista Fronçois Pinault, seguita da quella di Annie Leibovitz, famosa fotografa ed anche protagonista di alcune stampe fotografiche dell’artista, seguite dalla visione dello scrittore Javier Cercas, da quella del regista Wim Wenders e dalla rappresentazione della conservatrice Silvia Aubernas.
Ognuno di loro ha scelto in base alle sensazioni, alla propria concezione artistica e visione della realtà, che va dall’emozione di Annie Leibovitz, alla semplice narrazione artistica di Silvie Aubernas fino al racconto cinematografico di Wim Winders, che rafforza il tutto con l’aggiunta di una macchina fotografica “Leica”, appunto, per far immergere lo spettatore nella visione del mondo dell’artista attraverso l’obbiettivo.