Lo scavo illegale di reperti archeologici, non rappresenta una novità dei nostri giorni, tuttavia quello che oggi preoccupa maggiormente, è la crescita di questo fenomeno che si va concretizzando in una vera e propria minaccia al patrimonio culturale mondiale.
Il circuito del saccheggio dei beni archeologici, è complesso e varia da luogo a luogo coinvolgendo soprattutto quelli più ricchi di reperti e di conseguenza coloro che sono più interessati ad averli, anche illegalmente.
Proprio con l’intento di fermare questo circolo vizioso, e grazie all’azione condotta dal nostro Ministero per i Beni e le Attività Culturali, istituzioni museali che erano entrate in possesso di capolavori artistici, al termine di transazioni puramente mercantili, si sono ormai resi conte che, nel supremo interesse dell’arte e di tutti coloro che ne sono gli amanti, è indispensabile rispettare leggi e regole precise prima di entrare in possesso di un’opera.
E’ con questo spirito che quattro grandi musei statunitensi, hanno firmato un accordo con il nostro Ministero, accettando di restituire all’Italia decine di capolavori dell’arte greco-romana che avevano lasciato clandestinamente il nostro Paese negli anni passati.
In cambio l’Italia, consapevole di aver trasmesso all’Europa e al mondo il messaggio civilizzatore di Atene e Roma, si è impegnata a favorire i prestiti di numerose opere d’arte, creando così una sorta di immenso spazio museale che vede protagonisti la nostra arte e la nostra cultura.
Nel tempo infatti, i maggiori musei americani, hanno mutato “filosofia” divenendo più rigorosi; hanno così iniziato a restituire “spontaneamente” e senza alcuna ammissione di colpa, oggetti che nessuno aveva mai visto, a parte i tombaroli ovviamente, ottenendo anche l’opportunità di compiere scavi nella nostra penisola e di studiare i reperti così ritrovati.
Nostoi. Capolavori ritrovati: la mostra
La restituzione di questi capolavori, alcuni dei quali sono degli hapax ovvero reperti privi di simili o equivalenti in qualsiasi collezione, pubblica o privata, del mondo intero, ha dato vita, nel 2007, ad una mostra intitolata Nostoi. Capolavori ritrovati; così come, infatti, i compagni di Ulisse cantati da Omero nell’Odissea tornarono in patria dopo la distruzione di Troia, così questi reperti archeologici che, trafugati dall’Italia, avevano trovato “casa” in prestigiosi musei esteri, tornano nel loro paese d’origine.
I capolavori, che sono stati ospitati in varie sedi, da Roma a Ferrara, a partire dal 21 dicembre 2007, provengono in gran parte, 41 su 68, dal Getty Museum di Los Angeles, il museo con il quale la trattativa è stata più lunga, 12 dal Museum of Fine arts di Boston, 6 dal Metropolitan Museum di New York, 5 dalla Royal Athens Gallery di New York del mercante Eisenberg e 1 dal museo di Princeton.
A questi si aggiungono un eccezionale frammento di volto di una statua in avorio, scavato illegalmente presso Bracciano e ritrovato dai Carabinieri, una Kore in marmo di proprietà della Grecia e un bronzo del II secolo a.C. restituita spontaneamente da un collezionista svizzero.
Il caso delle opere d’arte trafugate, esplose nel 2005, quando il Getty Museum di Los Angeles, finì sulle prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo, per un coinvolgimento in vicende giudiziarie che riguardavano l’acquisizione e la proprietà di alcune delle opere esposte all’interno di questa mostra.
Nostoi. Capolavori ritrovati: Il Getty Museum
La testimonianza che ebbe maggiore risonanza fu quella del Los Angeles Times che riportava alcuni documenti di una inchiesta interna al museo avviata nel 2001: sin dal 1985 infatti, il Getty sarebbe stato al corrente che, alcuni tra i suoi principali fornitori vendevano oggetti di dubbia provenienza, cosa che non ha impedito al museo di continuare ad acquistare le opere.
I legali del Getty parlarono di 82 acquisti da mercanti, indagati dalle autorità italiane, tra cui 54 delle 104 opere che il museo aveva catalogato come capolavori.
Successivamente l’accusa ricadde sull’ex curatrice del Getty Museum, Marion True, ancora sotto processo a Roma per traffico di reperti archeologici trafugati in Italia e portati in un secondo tempo in Svizzera ed infine rivenduti a collezionisti e grandi musei.
A partire da questo caso il Governo Italiano attraverso il Ministero per i Beni e Attività Culturali in collaborazione con la magistratura, l’Avvocatura dello Stato e grazie alle indagini condotte dal Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale dei Carabinieri avviò una serie di lunghe trattative con alcuni grandi musei americani fino a quando nel settembre del 2007 non si è raggiunto un accordo che prevedeva il rimpatrio delle opere uscite dal nostro paese illegalmente.
Nel caso specifico del Getty, il Ministro dei Beni Culturali Francesco Rutelli chiese il rimpatrio di cinquantadue opere d’arte, tra cui un Apollo in marmo alto 146 cm., sul quale sono evidenti i segni dei denti della ruspa.
La faccenda, che ha suscitato numerose polemiche e minacce di embargo culturale italiano, portò alla fine ad un punto d’incontro nell’agosto del 2007 quando il Getty si impegnò a ridare all’Italia ben quaranta manufatti.
Tuttavia, tra queste opere non ci sarebbe stato l’Atleta vittorioso attribuito a Lisippo, un bronzo del III secolo a.C. recuperato nel 1964 nel mare di Fano e acquistato dal museo californiano per le cui sorti si è dovuto attendere fino al 30 novembre 2018, quando la Corte di Cassazione ha stabilito con una sentenza, che appartiene all’Italia.
Entro il 2010, il museo di Malibù ha rinunciato anche alla Venere di Morgantina, un acrolito (testa di marmo e corpo in calcare) di 25 secoli fa, alto 220 centimetri, rinvenuto ad Aidone vicino Enna e ceduto dal mercante londinese Robin Symes nel 1988 per 18 milioni di dollari.
Materiali eccezionali, musei eccellenti quindi, ma non solo. Alcuni reperti infatti, come accennato, sono stati restituiti spontaneamente da collezionisti e antiquari come Jerome Eisenberg, gallerista di antichità a Manhattan.
Egli, nella lussuosa Royal Athena Galleries esibiva, fino a poco tempo fa, le ceramiche attiche, i bronzi e i marmi che che ha poi deciso di restituire all’Italia.
I reperti erano stati visti nelle vetrine dell’antiquario di New York, dai Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale, ma la vera sfortuna per Mr. Eisenberg è che alcuni dei suoi pregiati e cari bronzetti fossero stati rubati in musei archeologici italiani e che altri pezzi di ceramica attica del V secolo a.C., risultassero fotografati nell`archivio ginevrino del trafficante romano Giacomo Medici, condannato a dieci anni di reclusione.
Medici è stato finora lo snodo essenziale di procedimenti penali come quello contro l`ex curatrice del Getty Museum, Marion True.
E così Jerome Eisenberg, titolare oltre che dell`Athena Galleries anche delle quotatissime Seaby Galleries di Old Bond Street a Londra, ha deciso di restituire bronzi come la Nike alata, una statuetta etrusca rubata presso la Soprintendenza di Ercolano (Napoli) nel 1975 da una banda di camorristi armati di pistole e decisi a svaligiare il deposito del sovrintendente Conticello, e l’atleta con strigile, un altro furto del 1970 nel museo archeologico Spina di Ferrara.
Fotografate già da Medici invece l`Oinochòe pontica a bocca trilobata del pittore Tityos (520 a.C.) e il cratere a colonnette con figure rosse del pittore Geras (460 a.C.).
Pezzo eccezionale fra i molti il frammento di Volto di una Statua in avorio, rarità fra le rarità, alta 22 centimetri, forse di Giunone, forse di Apollo, databile alla seconda metà del primo secolo avanti Cristo.
E’ stata ritrovata dai Carabinieri ad Anguillare Sabazia, sul lago di Bracciano, in una villa degna di un imperatore, nella località detta Torre dei Venti, in un terreno che aveva ancora i segni delle benne usate dai tombaroli per scavare ed era in frammenti poi ricomposti.
Altro pezzo che, se possibile, si distingue ancora di più è quello formato da due Grifi in marmo, ad ali spiegate, che addentano una cerva accovacciata, uno dei quali ripreso nell’atto di strappare la tenera carne di marmo.
Delle ferite della cerva si conservano i colori, il rosso, che si è mantenuto anche sulle creste dei due rapaci, il blu e il verde ocra.
I due grifi rappresentano il sostegno di una mensa proveniente da una tomba di fine IV secolo a.C., scavata nella zona di Ascoli Satriano, in provincia di Foggia, della quale si è individuata la zona ma non il punto preciso; una tomba di magnificenza principesca.
Quasi indenne appare invece la favolosa statua di Vibia Sabina in marmo paro, del II secolo a.C. alta 204 cm. (dimensione maggiore del vero quindi), ed effige dell’imponente moglie dell’Imperatore Adriano.
La scultura, rientrata dal Fine di Boston proviene con molta probabilità dalla residenza dell’imperatore a Tivoli, ed è perfettamente conservata.
Mostra una Sabina divinizzata e sublimata, a seguito della morte avvenuta tra il 136 e la prima metà del 137 d.C., nei panni della dea Demetra-Cerere secondo un tipo statuario cosiddetto della “Grande Ercolanese”, dalla replica romana di un originale greco attribuito a Prassitele, rutrovata a Ercolano e conservata nel Museo di Dresda.
L’identificazione di questo ritratto con Vibia Sabina è stata possibile grazie al confronto con alcune emissioni monetali, che ritraggono l’imperatrice, ormai diva, quindi post-mortem, con la stessa acconciatura, caratterizzata da un nodo di ciocche al di sopra della fronte.
Il nome di Vibia Sabina è da sempre stato associato a quello di una donna triste e di una moglie trascurata, ma a giudicare dai ritratti pervenuti, Vibia Sabina doveva essere di una bellezza armoniosa con grandi occhi dall’espressione dolce, un viso ovale dalle labbra sottili, capelli ondulati divisi in ciocche a formare elaborate acconciature.
Adriano non le negò nulla in termini di ruolo pubblico e fu anzi particolarmente generoso, al punto di coniare, come dicevo, monete con il suo ritratto: fatto inedito a Roma, un onore che non aveva avuto – per dire – neppure la mitica Livia, moglie di Augusto.
Dopo la sua morte Adriano ne decreta l’apoteosi, Vibia è diviene una dea e come tale viene rappresentata: gelida, altera, capo velato.
Nostoi. Capolavori ritrovati: Il Met
Fra i reperti più importanti restituiti dal Metropolitan Museum di New York, quello che maggiormente ha catalizzato l’attenzione dei media e della stampa, è sicuramente il Cratere di Eufronio, nel museo statunitense dell’11 settembre 1972, quando fu acquistato per un milione di dollari, dal mercante d’arte Robert Hecht, già sotto processo a Roma.
Non è stato facile per i Carabinieri dei Beni Culturali e i magistrati dell’avvocatura dello Stato, farsi restituire il capolavoro dai dirigenti del Met.
Era il 2010 quando, in un memoriale sequestrato a Parigi ad Hecht, si scoprirono le varie fasi dell’acquisto del cratere in due diverse versioni.
In una, meno credibile anche perché sconfessata di fatto dai risultati delle inchieste, Hecht raccontava di un antiquario libanese, che avrebbe avuto il vaso dal padre, il quale a sua volta l’avrebbe avuto nel 1920 a Londra, da un amico inglese, in cambio di monete antiche.
Secondo questa versione, Hecht sarebbe venuto a conoscenza dell’esistenza del vaso, già nel 1965 a Beirut, anche se l’acquisto si sarebbe poi fatto in Svizzera nel 1971, dove il cratere è stato affidato alle cure di un restauratore e quindi venduto al curatore artistico del Met, Thomas Hoving.
Nell’altra versione, quella più credibile, il vaso sarebbe stato invece offerto nel 1971 a Hecht da Giacomo Medici, l’antiquario-trafficante già condannato in Italia. Medici, indicato con le iniziali G.M., avrebbe contattato l’inglese a Roma, andandolo a trovare a Villa Pepoli. Qui gli avrebbe mostrato una polaroid, che ritraeva il cratere, ancora con la terra di scavo.
“Un’ora dopo eravamo in viaggio per Milano e poi per Lugano, dove Medici custodiva il vaso”
scrive Hecht nel suo memoriale.
Dopo l’acquisto, il restauro e quindi la vendita al curatore artistico del museo newyorkese, magistrati e investigatori, hanno individuato la zona dalla quale, il preziosissimo reperto, è stato depredato: una tomba a Greppe Sant’Angelo, frazione di Cerveteri, alle porte di Roma, mentre il periodo dello scavo è stato circoscritto al dicembre 1971. Da allora sono passati 37 anni.
Il Cratere a calice narra, nella scena principale, la morte del figlio di Zeus e Laodamia, Serpedonte, che combatteva come alleato dei Troiani, mentre dall’altra parte, mostra dei giovani che si armano, pronti per la battaglia; è firmato da Euxitheos come vasaio e da Euphronios come ceramografo ed è databile al 515 a.C.
È l’unico dei 27 vasi dipinti dal famoso Eufronio, che sia stato ritrovato integro, talmente grande da poter contenere 45 litri.
In cambio di questa straordinaria quanto lunga restituzione, il Met ha ottenuto in prestito, dal nostro paese, ben tre pezzi di straordinaria qualità, due dei quali, tra l’altro, direttamente connessi con il Cratere di Eufronio.
Si tratta di una Coppa di terracotta a figure rosse che racconta l’assemblea degli Dei greci sul Monte Olimpo, firmata da Euxitheos (lo stesso vasaio che ha firmato il Cratere di Eufronio), e di una brocca a forma di testa di donna, risalente al VI-V secolo a.C. firmata dal vasaio Charinos, che lavorò nella bottega di Eufronio. Il terzo pezzo in prestito è un cratere del IV secolo a.C. proveniente invece dall’Italia meridionale e che rappresenta Edipo che risolve l’enigma della Sfinge.
Nostoi. Capolavori ritrovati: il Museum of Fine Art di Boston
Il primo dei musei americani a ricevere in cambio un prestito dallo Stato italiano, è stato però il Museum of Fine Art di Boston.
Si tratta dell’Eirene, una statua in marmo della Dea della Pace, che è stata esposta nella galleria del MFA dedicata al mondo antico fino alla primavera del 2009.
La statua, rinvenuta per caso nel 1986 nel corso di attività agricole nella zona di Palombara Sabina, ha la testa realizzata durante l’Età Augustea (fine I sec. a.C.) ed il busto realizzato in età Giulio-Claudia (prima metà I sec. d.C.) e le due parti sono state esposte insieme per la prima volta, proprio nel museo statunitense.
Anche le restituzioni da parte del Museo di Boston si intrecciano con varie indagini condotte dalla Procura e dai Carabinieri sul mercato illegale internazionale delle opere d’arte, in particolare sull’attività di Giacomo Medici, a carico del quale è stato scoperto e confiscato, in Svizzera, un deposito con migliaia di pezzi di archeologia, usciti illegalmente dall’Italia e sequestrati insieme ad una formidabile documentazione fotografica più importante dei pezzi stessi, perché riproducono i materiali, ancora sporchi di terra.
Questo gruppo formato da 68 capolavori, nel suo peregrinare fra le varie sedi che hanno ospitato la mostra, si è arricchito di altri 10 pezzi provenienti dalla collezione privata della newyorchese Shelby White.
Analogamente a quanto accaduto a Eisenberg, anche la signora Shelby White, una volta avuta la conferma che le sue opere avevano una dubbia provenienza, seppur acquistate in buona fede, senza il bisogno di alcun procedimento giudiziario, ha deciso di restituirle spontaneamente.
Tra i pezzi, la bellissima Anfora attica a figure nere “panatenaica” con corridori, attribuita al Pittore del Louvre, del 540 a.C., proveniente da scavi clandestini nel centro sud d’Italia; l’Anfora calcidese con cavalcata di giovani, sempre da scavi clandestini, del 540 a.C.; la Lourotrophoros apula a figure rosse con Pelope e Ippodamia, trafugata in Puglia, del 320 a.C., ma anche un frammento di affresco pompeiano, del 50 a.C. che si compone perfettamente con un frammento già rientrato in Italia dal Paul Getty Museum di Malibù, entrambi provenienti da scavi clandestini in una villa pompeiana.
Viene esposta per la prima volta in Italia, anche la splendida Menade sdraiata, un frammento di affresco rubato il 13 maggio 1975 dagli scavi di Pompei.
La scelta fatta dalla signora Shelby White, è emblematica di un diverso comportamento tra i collezionisti, che non sono più disposti ad acquisire opere d’arte a qualsiasi condizione, compresa quella di comprare da mercanti disonesti che vendono opere rubate.
Un altro aspetto caratteristico della mostra, è anche che, ai materiali oggetto delle restituzioni recenti, ne sono stati affiancati anche due di più antica restituzione: la legge sacra di Selinunte su lamina di piombo restituita nel 1992 dal Getty di Malibù, e la Kilix attica a figure rosse con Ilioupersis firmata da Euphronios come vasaio e attribuita a Onesimos come ceramografo, proveniente da Cerveteri e restituita nel 1999 sempre dal Paul Getty.
I 68 capolavori, sono stati suddivisi, all’interno del catalogo che ha illustrato la loro prima apparizione durante la mostra allestita nella galleria di Alessandro VII nel Palazzo del Quirinale a Roma, in quattro sezioni: Ceramica Protocorinzia – Ceramica Laconoca; Ceramica Attica a figure nere; Etruria; Arte romana; Magna Grecia e Sicilia.
La consapevolezza, da parte dei responsabili dei musei statunitensi e italiani, dell’importanza della loro funzione, le azioni delle Autorità giudiziarie e investigative e degli esperti italiani, nonché degli organi di informazione e più in generale, dell’opinione pubblica internazionale, hanno fatto si che, il nostro Paese, potesse offrire attraverso questa mostra, i primi segni tangibili del risultato degli accordi raggiunti.
Tutto questo scaturisce dalla dichiarazione UNESCO di Parigi del 17 ottobre 2003, dove si richiede che ci sia non solo una maggiore cooperazione tra gli stati, ma addirittura una sorta di giurisdizione universale avversa agli atti di distruzione internazionale del patrimonio culturale che riveste una grande importanza per l’umanità.
La collaborazione internazionale in materia di beni culturali, dovrebbe essere una necessità sempre crescente, e con questo auspicio, è questa la vera conquista, il vero grande risultato che è scaturito da questi Nostoi, la cooperazione fra culture sicuramente differenti fra loro, ma accomunate da intenti comuni in materia di tutela del patrimonio culturale mondiale e di lotta all’illegalità e al commercio clandestino di opere d’arte.
I Beni Culturali, è bene sottolinearlo, hanno solo da guadagnare se sono inseriti nel loro ambiente naturale e sociale, in altri contesti perderebbero la loro “anima”, rimanendo oggetto solo di valutazioni estetiche.
Con questi prestiti e scambi inoltre, nessuno sul fronte della criminalità, potrà pensare di ottenere i vantaggi economici che hanno accompagnato il traffico di Beni Culturali; illeciti profitti che, com’è ovvio, incentivano gli scavi clandestini e in genere le condotte di de contestualizzazione, con tutti gli esempi cui abbiamo assistito.
La fase in cui le attività illegali erano tollerate è finita: si inaugura una nuova era.