La vita nelle periferie romane all’inizio degli anni Venti del 2000 viene drammaticamente punteggiata da tragiche notizie di cronaca che si susseguono nelle prime ore del nuovo anno. Gli “stupendi e miseri” tramonti romani che si espandono dal Pigneto a tutte le altre borgate nascondono e svelano il dolore che può essere sentito e visto da chi è in grado di fotografare attimi e da chi nell’arte, nella poesia e nella bellezza cerca quella luce speciale che sveli delle verità. L’osservazione di un’opera d’arte in cui la luce è protagonista, può talvolta andare a fondo e oltre le apparenze, fornire chiavi di lettura senza la pretesa di trovare a tutti i costi delle “istruzioni per l’uso”. Questo è lo spirito di questo articolo sulla celebre opera di Caravaggio La Vocazione di San Matteo. La tela di tre metri e ventidue per tre metri e quaranta fu realizzata con pittura a olio tra il 1599-1600 per la Chiesa San Luigi dei francesi per la Cappella Contarelli comprata nel 1583 dal vescovo francese Mathieu Contreil che intendeva abbellirla con opere relative alla vita di San Matteo. Era il periodo in cui il re francese Enrico IV si era distaccato dagli Ugonotti e convertito al Cattolicesimo. Ciò portò a una riconciliazione tra Francia e Spagna. Michelangelo Merisi, in arte Caravaggio si era trasferito a Roma nel 1572 e ricevette la sua prima commissione pubblica il 23 luglio 1599. Caravaggio si ispira fedelmente al Vangelo di Matteo. Attraverso lo studio dell’opera effettuato ai raggi x non emerge alcun disegno preparatorio, ma solo una base scura. L’artista solitamente partiva dalle figure sullo sfondo e poi su quelle in primo piano per definire mano a mano lo svolgimento dell’azione e le reazioni dovute alla luce. La scena viene rappresentata all’interno di una taverna. Caravaggio voleva infatti essere fedele alla realtà e rappresenta i personaggi del vangelo in costumi seicenteschi. Tutto ciò che fa è mettere in scena i suoi compagni di gioco, il suo fedele modello Cecco, in altre parole “i ragazzi di vita ” del Seicento e disporli intorno a un tavolo e dinanzi a uno specchio. Tutto ciò per il critico d’arte Roberto Longhi è molto innovativo. I personaggi di Caravaggio in generale appaiono fortemente realistici, “immersi in una luce reale di un’ora quotidiana”, ma lo specchio produce un effetto di sospensione, “un eccesso di verità, un eccesso di evidenza che lo fa sembrare morto”. La composizione si può quindi dividere in un blocco orizzontale a sinistra dov’è seduto il pubblicano Matteo e un blocco verticale sulla destra dove sono presenti Gesù e San Pietro. Dall’esame del quadro ai raggi X, vediamo che è assente la figura di Pietro che fu infatti aggiunta dall’artista in un secondo momento. La sua funzione è quella di rappresentare la Chiesa come intercessione tra umano e divino.
La finestra sullo sfondo è coperta dallo scuro, pertanto produce una luce fioca che tiene in ombra i personaggi. La luce vera infatti proviene da una fonte indefinita e ha un taglio diagonale. Diviene quindi una protagonista fisica e metafisica, rappresenta la Grazia divina e l’elemento salvifico che può toccare tutti in qualsiasi luogo e in qualsiasi epoca, tuttavia è il libero arbitrio che indica in che misura accettare o rifiutare il suo messaggio.
L’unico riferimento alla pittura del passato è il gesto di Cristo che indica e che richiama lo stesso gesto di Dio nella Creazione d’Adamo nell’affresco michelangiolesco della Cappella sistina. Per anni la critica ha sempre identificato l’uomo barbuto con San Matteo. Solo Andreas Prater nel 2012 nel Volume Caravaggio. Dov’è Matteo (Milano, Medusa 2012) ha considerato un nuovo enigma. L’uomo barbuto non indica se stesso, bensì il giovane che si trova a capotavola e che è chino a contare i denari. Mentre gli altri personaggi manifestano stupore di fronte alla visita inattesa, il personaggio a capotavola è l’unico che non si accorge di nulla. Se così fosse ci troveremmo allora di fronte a un messaggio sospeso in cui come afferma Prater “San Matteo non è più il peccatore ma non è ancora l’apostolo di Gesù”. E’ difficile smentire tanti anni di critica d’arte e di studi iconologici che a partire da Giovan Pietro Bellori (1613-1696) identificano la figura di San Matteo con la barba. Nell’intervista che Sandro Magister fa al docente di “Iconologia e iconografia cristiana” su Famiglia Cristiana del 25 luglio 2012 vengono riportate varie ipotesi a sostegno che il vero San Matteo sia il soggetto barbuto. Le altre due tele presenti a San Luigi dei francesi, ossia Il Martirio di San Matteo e San Matteo e l’Angelo, hanno come protagonista un San Matteo con la barba, così raffigurato in passato anche da Duccio da Boninsegna e da Giotto. Molti critici hanno inoltre compiuto un’identificazione tra Enrico IV anch’egli con la barba e il pubblicano Matteo.
Il lavoro di Prater diventa così un interessante spunto di dibattito e di una più attenta e approfondita analisi dell’opera. Rispecchia inoltre lo spirito dell’artista che dopo secoli continua a dialogare con il suo interlocutore nell’intento di non fermarsi all’apparenza. Potrebbe pertanto essere utile al fruitore visitare la Chiesa di San Luigi dei francesi e osservare il dito indice del personaggio da varie angolature al fine di poter cogliere se indica se stesso o il giovane che conta il denaro.
Come osserva anche Dario Fo nel corso di un suo programma televisivo su Caravaggio, ci troviamo di fronte a un’opera che “non è mai monumento, non è mai statica e contiene gli attimi della condizione umana “. Così osservando l’immensa rappresentazione della nostra realtà potremmo cogliere istanti in cui nei volti e nei paesaggi, la vita e la morte dialogano e si avvolgono di una luce che comunica tutte quelle eterne e segrete domande relative all’esistenza.