Ci hai mai fatto caso?
Quando guardi un bambino in un dipinto, ti fermi sempre un po’ di più. È come se quella figura piccola, spesso al margine della scena, attirasse uno sguardo diverso. Più morbido. Più inquieto, forse.
Perché l’infanzia nell’arte non è solo tenera. È densa. È doppia. È una ferita travestita da sogno.
Il bambino ideale: tra sacro e borghesia

Partiamo da lontano.
Nella pittura rinascimentale, l’infanzia è quasi sempre sacra. Il Gesù Bambino – piccolo, paffuto, ma già consapevole – domina le tele. Non c’è mai vera leggerezza: è un bambino-serio, un adulto in miniatura. Simbolo più che persona.
Poi, con il tempo, il bambino diventa borghese. Guarda i ritratti dell’Ottocento: vestitini impeccabili, pose composte, giochi eleganti. Ma anche qui… qualcosa stona. Gli occhi. Sempre un po’ spenti. Sempre altrove. Forse perché, anche allora, l’infanzia era più desiderata che vissuta.
E poi arriva la verità
Poi qualcosa cambia.
Arriva l’impressionismo. E l’infanzia – quella vera, viva, impacciata – si fa spazio. Berthe Morisot, Mary Cassatt, due donne che hanno osato mostrare bambini che non stanno mai fermi, che piangono, che si attaccano alla madre. Che si annoiano.
Cassatt, in particolare, ritrae spesso le madri con i figli in gesti quotidiani. Nessuna idealizzazione. Solo intimità. E una strana malinconia che affiora sotto la pelle delle cose.
L’infanzia dimenticata
Nel Novecento, l’infanzia nell’arte cambia ancora volto. E diventa, spesso, il volto della perdita.
Pensa ai bambini disegnati da Charlotte Salomon nei suoi acquerelli prima di essere deportata. O alle fotografie-ritratto dei bambini nei campi di guerra. Corpi piccoli, vestiti troppo grandi. Occhi che hanno già visto troppo.
Il dolore dei bambini è insostenibile. Per questo l’arte, quando lo affronta, lo fa con rispetto. Con pudore. Ma anche con coraggio.
Quando l’arte gioca (davvero)
Non c’è solo il trauma, però. C’è anche la memoria.
L’artista svizzera Alicja Kwade, ad esempio, usa oggetti d’infanzia – tricicli, giochi rotti, cubi di legno – per raccontare il tempo che passa. Sono installazioni che sembrano giocattoli, ma parlano di identità. Di perdita. Di ritorno.
Anche Maurizio Cattelan, con la sua crudele ironia, ha rappresentato bambini “appesi” o messi in scena in situazioni estreme. Un modo brutale per dirci: guardate meglio. L’infanzia non è mai neutra.
Perché ci tocca così tanto?
Forse perché l’infanzia, nel bene e nel male, è il nostro primo teatro.
Ci siamo stati tutti, lì. Con le ginocchia sbucciate, la paura del buio, i giochi inventati. E quando la vediamo rappresentata, qualcosa si muove dentro.
Un ricordo. Una mancanza. Un sorriso che non è più.
E tu, che bambino eri?
Hai mai trovato in un quadro, in una scultura, in una foto… un pezzetto della tua infanzia?
Quell’emozione sfuggente, che non riesci a dire ma che riconosci subito. Quella. È arte.
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