La battaglia di Mosul fu una lunga e sanguinosa operazione militare per liberare la città di Mosul dall’occupazione dello Stato Islamico. Durò dal 2016 al 2017, coinvolgendo forze irachene, internazionali e combattenti locali. La città subì pesanti distruzioni e la popolazione civile fu gravemente colpita.
Mosul si trova nel nord dell’Iraq, sulle rive del fiume Tigri. È il capoluogo del governatorato di Ninive e si trova di fronte al sito dell’antica città di Ninive, vicino ai confini con il Kurdistan iracheno. È una città con una storia lunga e complessa, teatro di importanti eventi storici e conflitti del nostro contemporaneo; centro importante per diverse fedi e culture nel corso dei secoli.
Mosul, film e intervista
Mosul è un film di guerra del 2019 diretto da Matthew Michael Carnahan e prodotto dai fratelli Russo, disponibile su Netflix. Ispirato a una storia vera, racconta la battaglia per la liberazione della città di Mosul dall’ISIS, Daesh, vista attraverso gli occhi di un’unità speciale irachena, la Squadra Ninive (swat), composta da poliziotti.

Il film si distingue per il suo approccio realistico alla guerra urbana, evitando retorica e moralismi, concentrandosi sulla cruda realtà del conflitto. La città di Mosul, distrutta durante i combattimenti, è stata ricostruita in Marocco per le riprese.
Esplora il forte legame di fratellanza tra i membri della Squadra Ninive, i quali combattono come una famiglia, e il loro comandante, Jasem, che assume un ruolo quasi paterno. Mosul presenta combattimenti intensi e realistici, con l’uso di armi leggere e di squadra, inclusi kalashnikov, mitragliatrici, granate, autobombe e droni esplosivi.
Mostra la brutalità della guerra da vicino, senza edulcorare la violenza e le difficoltà affrontate dai soldati e dai civili. È stato presentato al Festival di Venezia 2019 ed è stato prodotto da AGBO, la casa di produzione dei fratelli Russo. Il cast è composto principalmente da attori arabi, tra cui Adam Bessa (francese, madre italo-turca e padre turco), interpretando un agente di polizia che si unisce alla squadra.
L’attore che interpreta, e, aggiungerei, in maniera esemplare, il maggiore Jassem, Suhail Dabbach, è iracheno e ha dato nozioni di accento e dialetto propri del posto. Il film ha ricevuto riconoscimenti per la sua rappresentazione della battaglia di Mosul e per il suo realismo, ottenendo attenzione in Medio Oriente.
Mosul è un film di guerra intenso e crudo, offre uno sguardo vivido e senza filtri sulla battaglia per la liberazione della città irachena, concentrandosi sul coraggio e sulla determinazione dei soldati, poliziotti e del popolo iracheno che hanno combattuto contro Daesh, l’ISIS.
Mosul è basato su eventi reali, ispirato a un reportage giornalistico sulla battaglia di Mosul contro lo Stato Islamico auto eletto. Tuttavia, come molti film basati su una storia vera, presenta delle differenze rispetto alla cronaca degli eventi reali, soprattutto per quanto riguarda la rappresentazione dei personaggi e delle dinamiche della battaglia.
Ispirato al reportage giornalistico, le singole scene e i dialoghi sono frutto di elaborazione narrativa, pur rimanendo fedeli allo spirito degli eventi reali.
La conquista nel giugno del 2014 di Mosul – nella realtà – la seconda città più importante dell’Iraq, da parte del gruppo Stato islamico (Is) diventa presto il simbolo della potenza militare dell’organizzazione jihadista. Il 17 ottobre dello stesso anno comincia la controffensiva per liberare la città, in quei giorni il giornalista Luke Mogelson del New Yorker sta seguendo il Nineveh swat team, un gruppo d’élite iracheno creato per dare la caccia ai terroristi più pericolosi. È guidato dal colonnello Rayyan Abdelrazzak, capo della polizia di Nineveh, nella regione di Mosul.
Tutti i componenti di questa squadra sono stati in qualche modo colpiti dall’Is: fisicamente, da proiettili ed esplosioni, o psicologicamente, dalla morte di una persona cara. Nel bellissimo articolo pubblicato nel 2017, The desperate battle to destroy Isis.
Mogelson racconta: mentre l’Is attraversava la città, il comandante dello swat team, il colonnello Rayyan Abdelrazzak, raggruppava le sue truppe nell’hotel Mosul, un edificio a terrazze di dieci piani sulla riva occidentale del Tigri. Il suo gruppo ha mantenuto la posizione per quattro giorni, mentre i trentamila soldati dell’esercito iracheno di stanza a Mosul, quasi tutti provenienti da altre parti del paese, abbandonavano le armi e fuggivano.
Il film segue lo stile asciutto del racconto di Mogelson. Niente considerazioni geopolitiche contorte o grandi analisi orientaliste, i componenti del Nineveh swat team sono tutti di Mosul. Per loro, che da anni lavorano in polizia, il gruppo Stato islamico è una banda di criminali a cui non vogliono lasciare scampo, come spiega al giornalista il colonnello Rayyan: “Ci sono sempre stati dei poco di buono a Mosul. Negli anni novanta c’erano mafiosi che rapivano e uccidevano le persone e rubavano alla gente. Dopo l’arrivo dell’esercito statunitense, si chiamarono mujaheddin, jihadisti. Ora si chiamano Stato islamico. Ma sono solo criminali. Sono sempre stati solo criminali”.
Il film narra tre ore nella vita dei combattenti di Abdelrazzak: da quando il giovane poliziotto iracheno Kawa è salvato dallo swat team durante un agguato dell’Is, in cui ha perso lo zio, e viene arruolato nel gruppo.
Attraverso i suoi occhi non ci è risparmiata la cruda violenza dell’assedio, gli orrori che commette anche lo swat team, guidato chiaramente da una logica di vendetta. Ma, diversamente dai film hollywoodiani, la violenza non è mai esaltata.
Nella regia di Carnahan, assistito dal regista iracheno Muhammad al Darraji, la guerra è spogliata di tutto il suo nobile immaginario. Una scena emblematica mostra i combattenti d’élite condividere un pasto fatto di patatine e narghilè sul letto di una casa abbandonata mentre guardano una telenovela. La squadra non usufruisce di nessuna copertura militare, quindi non riceve supporto logistico (manca anche un medico al seguito). Qualche minuto dopo questo momento di pace, alcuni di loro moriranno. E gli altri ripartiranno.
La morte è ineluttabile e la loro missione è irachena fino al traguardo finale, che Kawa ignora. Si tratta, senza svelare troppo, di recuperare la propria città, con una conclusione – la scoperta dell’obiettivo preciso – davvero straziante.
Il cast eccellente è guidato dall’attore iracheno Suhail Dabbash che ha anche fatto da tutor per insegnare l’accento iracheno agli altri attori arabi. Intravisto brevemente con indosso un giubbotto esplosivo nel film di Kathryn Bigelow The hurt locker per il quale durante il provino, ricorda l’attore, gli avevano chiesto di dire qualsiasi cosa.
In Mosul, Dabbash, che ha il ruolo di uno dei protagonisti, rivelandosi un attore straordinario ed è stato acclamato alla mostra di Venezia, dove il film ha ricevuto una standing ovation di sette minuti. Il cast era incredulo di questo cambiamento: per la prima volta in una produzione occidentale, agli attori arabi non è stato chiesto di pronunciare borborigmi da terroristi prima di farsi esplodere, ma di essere protagonisti di una storia che gli appartiene.
In Medio Oriente Mosul è stato un evento sui social network, nella maggiore parte dei casi i commenti esprimono sorpresa nel vedere per la prima volta degli attori arabi protagonisti della loro storia, non considerati come spalle del salvatore bianco.
Gli osservatori iracheni sottolineano di più le considerazioni politiche, infatti il regista Hamid al Maliki trova il film troppo semplice: “per noi, questa storia è ancora una storia calda”. E lo salva solo per la performance “del nostro Suhail Dabbash”.
Per il blogger iracheno Haidar Mahbouba, invece: “Si tratta di un documento per la storia: le forze di mobilitazione popolari irachene (io aggiungerei anche i curdi) da un lato e quelle iraniane dall’altro sono state le uniche a rimanere a Mosul per combattere contro il gruppo Stato islamico, quando tutti gli altri sono fuggiti o gli hanno fornito le armi”.
Tre giorni dopo l’uscita del film su Netflix, l’organizzazione jihadista – o qualche suo seguace – ha pubblicato una risposta: “con il solito stile pacchiano del gruppo, Mosul, l’altra storia è un film di 52 minuti con le immagini di combattenti dell’Is, che usa addirittura il logo Netflix sul suo manifesto. A riprova dell’importanza di continuare a condurre una guerra delle immagini – che non è proprio finita – per assicurarsi la narrazione finale sulla guerra di Mosul”.