Hai mai pensato a cosa significasse accendere un giradischi nel bel mezzo di un’Italia occupata, mentre fuori cadevano bombe e dentro si accendevano sogni?
Eppure succedeva davvero. E il jazz — sì, proprio lui — suonava. Forte. Ostinato. Ribelle.
Siamo nei primi anni Quaranta. L’Italia fascista guarda con sospetto ogni influenza americana. E il jazz? È l’emblema stesso dell’“altro”. Afroamericano, libero, sincopato. E quindi: pericoloso.
Ma non puoi fermare un ritmo con un decreto.
Così, mentre i giornali di regime parlavano di “musica degenerata”, nei sotterranei delle città cominciavano a nascere i primi club clandestini, ritrovi segreti dove si suonava Duke Ellington, Glenn Miller, Benny Goodman. E si ballava. Come se il mondo fuori non esistesse.
La resistenza… a tempo di swing

A Milano c’era il Santa Tecla, che dopo la guerra divenne leggendario. A Roma, tra il quartiere Prati e Trastevere, si mormorava di cantinati pieni di saxofoni e cuori che battevano a 120 BPM. Niente insegne, solo bocche che sussurravano l’indirizzo giusto.
Erano luoghi improvvisati: ex depositi, salette sotto le osterie, scantinati di palazzi bombardati. Bastava una batteria, un pianoforte mezza accordato, un contrabbasso salvato da un trasloco.
E poi arrivavano loro: i ragazzi con le scarpe bucate e l’anima piena di musica. Qualcuno aveva sentito una volta un disco arrivato per caso dalla Svizzera. Qualcun altro aveva imparato di nascosto a suonare il clarinetto con un metodo americano tradotto a mano.
Le donne? C’erano eccome
Non immagini quante storie dimenticate ruotino intorno a quelle note. Come quella di Liliana “Lilly” Cavani — no, non la regista, un’omonima cantante napoletana — che incantava tutti con la sua voce da Billie Holiday mediterranea. Cantava “Summertime” mentre i tedeschi controllavano i documenti a due isolati di distanza.
O Mina Cattaneo, sassofonista autodidatta che suonava a occhi chiusi, solo per la gioia di “sentire il cuore ballare”. Era considerata troppo “maschile” per il conservatorio, ma suonava meglio di metà orchestra.
Quando finì la guerra… ma non il sogno
Con la Liberazione, le porte si aprono. Arrivano le truppe americane, i dischi, i musicisti neri in tour. L’Italia scopre ufficialmente il jazz, ma molti di quei club chiudono. Paradossale, no?
Il jazz diventa “moda” e perde la sua anima clandestina. Alcuni dei pionieri spariscono nel nulla. Altri, invece, diventano maestri di quella scuola italiana che darà poi i Natoli, i Gaslini, gli Urbani.
Ma cosa ci resta oggi?
Una manciata di registrazioni rovinate. Qualche foto in bianco e nero. E tante storie da raccontare. Perché il jazz, prima di essere un genere musicale, è stato un atto di libertà. Un modo per dire “esisto”, anche quando tutto il resto cercava di farti tacere.
E oggi?
Oggi quel ritmo sopravvive nei festival estivi, nei dischi di vinile ritrovati nei mercatini, nei locali con le luci basse dove qualcuno ancora osa un’improvvisazione.
Ma forse dovremmo ricordarci di quei ragazzi degli anni ’40, di quelle donne invisibili, di quei club senza nome.
Perché in fondo, ogni volta che accendi un brano jazz… stai riaprendo una cantina. E stai scegliendo, ancora una volta, la libertà.
Ti andrebbe di raccontarmi la tua prima esperienza col jazz? O magari quel disco che ti ha cambiato la giornata?
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