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La visione computerizzata può davvero comprendere l’arte? Un’illusione tecnologica da decostruire

La visione computerizzata può davvero comprendere l’arte? Un’analisi critica della tecnologia nella storia dell’arte, tra limiti ideologici e illusioni di oggettività.

Massimo 6 mesi fa Commenta! 6
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Pattern, pixel e algoritmi: ma dov’è finita l’arte? Una riflessione sulle promesse (e le illusioni) della computer vision nella storia dell’arte.

Contenuti
Cosa fa davvero la visione computerizzata nell’arte?Collaborazione o compromesso? Il rischio di un’alleanza sbilanciataLa CV come strumento di certificazione, non di conoscenzaE la materia dell’arte? Invisibile per l’algoritmoUn’illusione di oggettività che può farci smettere di pensareRitrovare lo sguardo umano: non nostalgia, ma responsabilità

Negli ultimi anni abbiamo assistito a una proliferazione di progetti che promettono di rivoluzionare lo studio dell’arte grazie alla visione computerizzata (CV). Algoritmi in grado di “vedere” dipinti, sculture e miniature, riconoscendo stili, autori, affinità formali. Collaborazioni inedite tra storici dell’arte e informatici. Nuovi corsi universitari dedicati all’intelligenza artificiale applicata ai beni culturali. Ma è davvero questa la strada per comprendere l’arte?

Secondo Sonja Drimmer, storica dell’arte e docente all’Università del Massachusetts Amherst, la risposta è netta: no. O almeno: non se pensiamo all’arte come qualcosa che va oltre le forme e le somiglianze visive.

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Nel suo intervento critico, Drimmer smonta l’idea che la visione computerizzata possa offrire un contributo significativo alla storia dell’arte, e anzi invita a riflettere sulle motivazioni ideologiche, politiche ed economiche dietro il suo successo crescente.

Cosa fa davvero la visione computerizzata nell’arte?

Lungi dall’“osservare” le opere come farebbe un essere umano, la visione computerizzata si limita a riconoscere pattern visivi ricorrenti, in base a modelli statistici costruiti su dati precedentemente etichettati.

In parole semplici: non comprende un’opera, ma cerca corrispondenze numeriche tra immagini. Se due dipinti hanno forme simili, colori affini o composizioni ricorrenti, la CV le collega. Ma cosa ne deduce? Nulla, a meno che un umano non interpreti il risultato.

Secondo Drimmer, questo approccio riduce la complessità dell’arte a una questione di somiglianza visiva. E in questo processo, rischiamo di perdere tutto ciò che rende un’opera significativa: il contesto, l’intenzione, la materia, l’uso storico, la dimensione simbolica.

Collaborazione o compromesso? Il rischio di un’alleanza sbilanciata

Molti progetti accademici celebrano la collaborazione tra storici dell’arte e informatici come una nuova frontiera della ricerca interdisciplinare. Ma, ammonisce Drimmer, questa alleanza è spesso costruita su basi fragili.

La CV non nasce per comprendere l’arte, ma per gestire informazione visiva, spesso con obiettivi predittivi, commerciali o di sorveglianza. Quando viene “importata” nei musei o nelle università, non cambia linguaggio: porta con sé le sue logiche, le sue gerarchie, le sue finalità.

E qui nasce il vero problema: chi stabilisce cosa vale la pena vedere, analizzare, conservare? E chi decide quali opere vengono digitalizzate, con quali criteri, e secondo quali parametri?

La CV come strumento di certificazione, non di conoscenza

Visione computerizzata

Un aspetto poco discusso ma centrale della critica di Drimmer è che la visione computerizzata viene spesso utilizzata non per approfondire la comprensione dell’arte, ma per giustificare la creazione di nuovi corsi, certificazioni, fondi e posizioni accademiche.

Il rischio è chiaro: la tecnologia diventa un fine in sé, non un mezzo per arrivare a nuove domande. Si lavora per produrre visualizzazioni, dashboards, reti neurali applicate, ma ci si dimentica di chiedersi perché le cose siano state fatte in quel modo, e se davvero stiamo imparando qualcosa di nuovo.

Come scrive Drimmer: “La computer vision offre la promessa di una nuova oggettività, ma in realtà ricicla e rafforza strutture di potere esistenti.”

E la materia dell’arte? Invisibile per l’algoritmo

Uno dei punti più deboli della visione computerizzata, secondo Drimmer, è la sua totale disconnessione dalla materialità dell’opera.

Un algoritmo può confrontare due immagini digitali, ma non vede la tela, il legno, la pergamena, il pigmento, né percepisce l’usura, l’odore, l’umidità, la tridimensionalità. Tutto viene tradotto in pixel, in database, in astrazioni.

Ma l’arte — soprattutto quella del passato — è fatta anche di tempo, di supporti fragili, di relazioni spaziali con il corpo dello spettatore. Senza questi elementi, ogni “visione” è incompleta.

Un’illusione di oggettività che può farci smettere di pensare

Uno degli aspetti più seducenti della visione computerizzata è la sua apparente neutralità: i dati sembrano “parlare da soli”, le correlazioni emergono in automatico, le mappe visuali affascinano per la loro eleganza.

Ma questa è una trappola. Ogni algoritmo è costruito da esseri umani, su scelte precise, su assunti impliciti. Le collezioni digitali sono parziali. I dataset sono selezionati. Gli output sono filtrati.

Lungi dal liberarci dal pregiudizio, la CV rischia di mascherare con un’estetica tecnologica le stesse logiche che da secoli determinano il canone artistico: cosa conta, cosa viene mostrato, cosa viene dimenticato.

Ritrovare lo sguardo umano: non nostalgia, ma responsabilità

Arte e intelligenza artificiale: rivoluzione o minaccia per gli artisti?

Questo non significa che ogni uso della visione computerizzata sia da rifiutare in blocco. Strumenti di analisi automatizzata possono avere un ruolo importante nella catalogazione, nel restauro, nella tracciabilità delle opere.

Ma, come sottolinea Drimmer, non possiamo delegare alla macchina il compito di vedere davvero. Perché vedere l’arte significa anche provare, sbagliare, lasciarsi toccare, cambiare idea.

L’algoritmo lavora per pattern. Noi lavoriamo per senso.

E tu? Credi che la tecnologia possa aiutarci a comprendere meglio l’arte, o stiamo solo digitalizzando l’apparenza senza cogliere l’anima delle opere? Partecipa al dibattito nei commenti o sui nostri canali social.

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