Lo scatto vincitore dell’edizione 2023 del prestigioso concorso internazionale World Press Photo è del fotografo ucraino Evgeniy Maloletka che ha di fatto consegnato agli occhi del mondo qualcosa che certamente le parole non potrebbero raccontare e forse, in questo caso, neanche una fotografia.
Lo scatto vincitore non lo troverai in copertina né all’interno di quest’articolo, è una scelta, la mia che credo non arriverà all’orecchio di nessuno tanto è marginale relativamente al contesto ma eserciterei comunque la possibile scelta di non farlo anche se a rendersene conto fossimo io e la mia immagine riflessa allo specchio.
Posso però descriverla, cosa che smussa e di parecchio gli acuminati contorni dell’immagine in questione, poiché le parole per quanto affilate non potranno mai sostituirsi all’immagine della realtà.
Nella fotografia vincitrice del World Press Photo compare sullo sfondo un palazzo ormai ricordo di se stesso e comunque ricordo di un passato diverso da quello ritratto.
Il cielo è grigio un po’ perché la giornata sembra esserlo di suo , un po’ per il fumo che si vede sullo sfondo, non di un fuoco acceso per caso ma di una combustione a seguito dello scoppio probabilmente di una bomba.
Siamo a Mariupol, cittadina dell’Ucraina di circa cinquecentomila abitanti; prima dell’inizio del conflitto sconosciuta ai più che i libri riportavano come una delle dieci città più popolose dello stato, centro di primaria importanza economica del paese.
Ora è un cumulo di macerie, massacrata da quella che finora è stata indicata come la battaglia più sanguinosa dell’intero conflitto.
E’ qui che viene catturato lo scatto vincitore del premio World Press Photo, nei pressi di un ospedale.
Esattamente al centro della scena, come in un quadro rinascimentale, si vedono sei persone ma in realtà sono sette.
La donna stesa sulla barella medica, trasportata non sappiamo dove, ha le forme di una futura mamma.
Non ce la faranno, né la madre né il nascituro; né mai sapranno che il loro tentativo di scampare ad un destino già assegnato, ha dato come frutto l’assegnazione del Contest World Press Photo edizione 2023.
Sacrosanto ed impagabile il lavoro che migliaia di fotoreporter ogni anno svolgono in scenari affatto sicuri tra mille avversità derivate dagli ambiti più disparati in cui si muovono che a l0ro volta forniscono un puntuale resoconto per immagini in ogni angolo del mondo, esattamente dove ci sia qualcosa da raccontare o che valga la pena di ritrarre.
Una cronaca per immagini la loro, sempre puntuale e che meglio di altri vettori lascia poco margine al fraintendimento e forse per questo colpisce subito dritto, proprio là dove deve colpire, cuore, cervello. immaginazione e senza preavviso perché una fotografia non fa premesse: è e basta.
Anche questa, vincitrice del World Press Photo Contest è esattamente come le altre, un pugno al cuore ma di quelli che ti fanno contorcere lo stomaco e che ti fanno pensare per un attimo che voglia uscire fuori ed andarsene, ovunque ma non restare lì a contemplare un’ immagine così.
Sembra avere anche un nome quel corpo adagiato sulla barella, che le agenzie di stampa, una dopo l’altra hanno rilanciato come Marianna.
Eppure, dall’esatto momento in cui il dito del reporter ha, premendo l’apposito tasto sulla sua macchina fotografica, dato di fatto l’innesco per la successiva apertura dell’obiettivo, tutto è diventato altro, soprattutto Marianna.
Lei in quell’istante è diventata tutte le mamme del mondo ma per davvero anche se come frase ha il suo coinvolgente effetto boomerang ma è esattamente quello che è accaduto dopo quello scatto.
Il racconto della vita spezzata della mamma di Mariupol fa tornare alla memoria un altro storico scatto fotografico, ad una diversa latitudine ma con lo stesso percorso mediatico se non maggiore a paragone dei mezzi di divulgazione di allora.
La fotografia vincitrice del World Press Photo ha un capostipite
E’ passata alla storia con il nome di Napalm Girl, in effetti un po’ troppo da copertina ma erano tempi diversi e siccome in questo caso sappiamo, grazie al seguito che ha avuto la vicenda, il nome della inizialmente inconsapevole protagonista, direi che preferisco indicarla con il suo nome vero e basta.
Kim Phúc è la bambina di 9 anni ritratta nella foto che diventò il simbolo della guerra in Vietnam e che valse al fotografo Nick Ut il premio Pulitzer.
Era l’8 giugno 1972 quando un gruppo di cacciabombardieri Douglas A-1 Skyraider dell’aviazione sudvietnamita attaccò con le bombe al napalm Trang Bang, un paesino del Vietnam del Sud non lontano dalla capitale Saigon, occupato in quel momento dalle forze nordvietnamite.
La guerra in Vietnam era nelle sue fasi finali, e dopo anni di disfatte ed enormi perdite l’esercito americano che aveva occupato il paese per provare a evitare la presa del potere da parte dei Viet Cong comunisti si stava ritirando.
I bombardamenti a tappeto degli americani e dei vietnamiti del Sud erano comunque ancora in corso. Quel giorno però i cacciabombardieri sbagliarono obiettivo e colpirono i propri soldati, insieme a un tempio religioso dove si erano rifugiati dei civili.
Tra questi c’era la nostra Kim Phúc, allora residente a Trang Bang con la sua famiglia; il napalm la colpì sul braccio che prese fuoco e il suo vestito si distrusse in pochi secondi.
La piccola reagì scappando dal tempio insieme a fratelli e cugini, gridando “Nóng quá, nóng quá!” che vuol dire “Scotta Scotta” e correndo esattamente per puro caso verso l’obiettivo del vincitore del premio Pulitzer dell’anno dopo.
La bambina si salvò, raccontano gli annali, grazie anche all’intervento del giornalista ma come è facile immaginare ne portò le conseguenze a vita.
La fotografia anche se non subito fece il giro del mondo e da allora venne indicata come testimonianza vivida del male che riesce a portare con sé ogni guerra, diventando il simbolo di ciò che non sarebbe più dovuto accadere, mai più.
Un Pulitzer a quei tempi forse sanciva con più forza questo tipo di messaggio in un momento storico in cui ancora l’aspetto comunicativo era legato a mezzi meno istantanei e ampi.
Si scrisse di quella fotografia doveva essere la testimonianza tangibile di cosa non sarebbe più dovuto accadere e invece la storia da allora ci ha insegnato che non è così e che anche l’aspetto inerente la comunicazione di massa ha ormai ceduto il passo a quello più accattivante del contest.
C’è quindi forse da chiedersi quando il proprio lavoro debba restare tale anche difronte all’incommensurabile.
Mi sono sempre chiesta se negli attimi che nella vita ho impegnato a fare mio un ricordo, per poterlo serbare con quanti più particolari possibili, così preziosi per i cassetti della memoria, avessi potuto fare qualcosa o almeno dare inizio ad una successiva coralità di azioni che magari avrebbero portato ad un altro esito, sia esso positivo o negativo.
Magari in questo caso no ma forse e dico forse, difronte ad un uomo che arde come una torcia, mangiato vivo dalle fiamme, quell’istante in meno che ci si potrebbe impiegare per cercare di spegnerlo, potrebbe senz’altro fare la differenza; questa però è una riflessione troppo facile in cui cadere rovinosamente ma è comunque un aspetto che va quantomeno preso in considerazione.
Sì quindi al diritto di cronaca per immagini, un po’ meno al contest di turno, per quanto di prestigio, altra faccia di una medaglia troppo fuorviante per essere considerata totalmente al servizio di ciò che vorrebbe far conoscere al mondo.