La violenza sulle donne si trasforma in arte e lo scopo è chiaro: quello di dar voce alle vittime, per smuovere le nazioni ad emanare leggi che tutelino i diritti delle donne. Non è un monito che l’arte diffonde nel mondo solo il 25 novembre, ma diventa attuale oggi perché molte sono le denunce di violenza domestica, causata da convivenze forzate in tempi di quarantena. E’ un dato che ricevo da psicologi e psichiatri.
Le arti: dalla street art ai tatuaggi raccontano la violenza sulle donne
Regina Josè Galindo è una performer e poetessa del Guatemala, paese in cui le violenza sulle donne e gli omicidi in generale sono all’ordine del giorno. Interprete famosa e anticonformista delle ingiustizie, delle sopraffazioni e delle discriminazioni nel suo Paese, dove si svolgono continuamente femminicidi, la Galindo esprime con il corpo la sua profonda e sentita obiezione.
Il coltello che incide sulla carne la parola offensiva “perra” [ndr cagna] è una lama che affonda nella coscienza di tutti noi. Il suo corpo nudo in mezzo alla sabbia, coperto di terra oppure incatenato esprime la forza della protesta contro un sistema dittatoriale e maschilista.
Quando una donna del Guatemala risponde alla domanda: “Come stai?” con la frase “Estoy viva” (sono viva) esprime la realtà di ciò che vive costantemente. La metafora del corpo esplode nella mente dell’osservatore, che si stupisce e comincia a porsi domande, così deve essere secondo Regina.
Elina Chauvet, messicana, è l’artista che nel 2009 ha dipinto le scarpe delle donne di rosso e le ha esposte a Milano, poi in varie piazze del mondo.
Le scarpe femminili, dai sandali alla decolleté, allo stivale, sono da sempre ciò che una donna sfoggia con allegria e voglia di vivere, ma queste scarpe si tingono di rosso e di morte e diventano il simbolo della violenza sulle donne.
Troppe le vittime in Messico, afferma Elina in un’intervista:
le donne ora lavorano, studiano e non vogliono più svolgere solo i lavori domestici o restare a casa a badare ai figli. Questo fatto scatena la rabbia degli uomini che non accettano il cambiamento sociale in atto.
Panmela Castro è l’artista dei murales, brasiliana e vittima di vessazioni da parte del marito. Da lui scappò nelle favelas e cominciò a dipingere sui muri dei bellissimi murales che raccontano i volti di donne tristi e affrante.
A loro, come a Panmela, è stato tolto perfino il diritto di sorridere. Tuttavia, anche questa donna non si è arresa e ha deciso di esprimere la tristezza per un mondo che non le ha reso giustizia, perché giustizia non c’è nel suo Paese. Le leggi sono poche e recenti e non vengono applicate, se non in minima parte.
Le turche Elavan Ozkavruk e Kurnaz si sono ingegnate a diffondere le magliette talismaniche, simili al vestiario che utilizzavano i guerrieri turchi, per donarle alle donne vittime di violenza, quale talismano contro le aggressioni.
Così anche Lise Bjorne Linnert, norvegese, ha avviato il progetto delle etichette di stoffa su cui le donne di vari Paesi cuciono il nome di una donna morta per mano di un uomo, insieme alla scritta “sconosciuta” nella lingua madre di chi le tesse in quel momento, perché il nome è identità e molte vittime sono senza nome e senza voce, come le donne .
Il nome è il primo segno della nostra individualità. A Ciudad Juaréz, in Messico, dal 1993 più di 1500 donne sono state vittime di omicidio, molte delle quali lavoravano in laboratori clandestini proprio in quella città, e le etichette con il loro nome, inserite all’interno dei camici da loro indossati, erano spesso l’unico modo per attribuire un nome al corpo defunto che veniva ritrovato.
Erik Ravelo, artista cubano, è famoso per le foto shock delle campagne pubblicitarie di Benetton, in cui ritraeva personaggi famosi in improbabili baci omosessuali. Egli stesso si definisce “artivista” perché le sue foto contro la violenza sulle donne sono state censurate da Instagram. Eppure, non si è fermato: ha protestato con una mail, in cui afferma che la sua arte è forte e feroce perché manifesta contro i maltrattamenti sulle donne. Insieme al cinese Skek Po Kwan, fotografa lesioni, mani bucate e ferite che le vittime di violenza portano come segno tangibile di questa ingiustizia sociale.
Che dire poi di Patricia Evans una consulente, scrittrice americana, anche lei vittima di abusi da parte del marito, ha scritto numerosi libri sulla violenza verbale: verbalabuse.com è il sito nel quale si trovano le informazioni sui suoi libri e sulla sua costante e tenace attività per le donne, ma non solo, contro ogni “verbally abusive relationship”.
Infine, Flavia Carvalho, brasiliana, è una tatuatrice che con il suo progetto “A pel de flor“, copre le ferite, le lesioni e le cicatrici delle donne.
La violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci. (Isaac Asimov)