A prima vista, ti sembrano freddi, massicci, quasi ostili. Blocchi di cemento armato che sfidano la grazia e il tempo, costruzioni che non cercano approvazione ma impongono presenza. Sono gli edifici del brutalismo, e – sorpresa – stanno tornando a far parlare di sé. Ma cosa c’è dietro a questa estetica che per anni è stata considerata quasi “disumana”?
Il nome dice tutto: brutalismo
La parola suona pesante, e lo è. Viene dal francese béton brut, cioè cemento grezzo. Ed è proprio da lì che nasce tutto: niente orpelli, niente finiture, solo struttura nuda e cruda, in bella (o brutta?) vista.
Negli anni ’50 e ’60, dopo la guerra, il brutalismo sembrava la soluzione ideale per un mondo che voleva ricostruire in fretta e con pochi mezzi. Ma non solo: voleva anche farlo con un linguaggio architettonico nuovo, moderno, onesto, diretto.
Gli architetti brutalisti non volevano sedurre. Volevano mostrare la verità dell’edificio. E se questa verità faceva un po’ paura… tanto meglio.
Perché ci respingono e ci attraggono?

È questo il paradosso. Quegli edifici massicci – spesso sedi di enti pubblici, università, biblioteche – sembrano più simili a fortezze che a luoghi civili. Ma a guardarli bene, c’è un fascino ruvido, quasi ipnotico.
Come quelle persone apparentemente scontrose che, alla fine, si rivelano le più autentiche. Forse è per questo che, negli ultimi anni, il brutalismo è stato riscoperto e rivalutato: perché non finge. In un’epoca di facciate (reali e virtuali), quelle costruzioni così sfacciate nel loro essere spigolose ci ricordano che l’architettura può ancora avere carattere.
Il ritorno del brutale
Oggi il brutalismo vive una seconda vita. Certo, molti edifici sono stati abbattuti – in parte per degrado, in parte perché poco amati dal pubblico – ma altri sono diventati icone culturali.
Alcuni sono perfino diventati oggetto di culto su Instagram. Hai mai visto il feed di chi fotografa solo scale spiraliformi di cemento o palazzi che sembrano usciti da un film distopico? C’è un’estetica nuova che si è formata attorno a questa architettura.
E poi ci sono i videogiochi, i film, le serie: il brutalismo ha trovato casa in opere come Control della Remedy, o nelle scenografie di Andor (serie Star Wars). E lì, nel grigio massiccio, funziona alla grande.
Un’estetica scomoda, ma necessaria

Alla fine, il brutalismo ci fa una domanda semplice: cosa dev’essere bello, oggi? Deve piacere a tutti? Deve essere leggero, armonico, instagrammabile? O può ancora esistere un’arte che sfida e divide, che non cerca consenso ma lascia il segno?
Forse è proprio in quel disagio iniziale che troviamo il suo valore culturale. Perché, diciamocelo: i mostri di cemento, in fondo, parlano di noi più di quanto crediamo.
La prossima volta che passi accanto a un palazzo “brutto”, fermati un attimo. Osservalo davvero. Chissà che non abbia qualcosa da dirti.
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