Giovanni Verga nacque a Catania il 2 settembre 1840 da una famiglia benestante, che aveva delle proprietà a Vizzini. Esistono delle incertezze sul giorno della sua nascita, forse legate ad uno spostamento tra Vizzini e Catania che avrebbero fatto tardare la registrazione, per cui molto probabilmente Giovanni nacque il 31 agosto. Ma di tutto ciò non abbiamo prove certe.
Un uomo che nacque a cavallo di due secoli e che indicò un filone che dal Realismo francese, passò per il Verismo italiano e successivamente per il Neorealismo in arte, letteratura e cinema. Le arti si incontrano e raccontano un’epoca.
Nella prima parte della sua formazione, studiò presso la scuola di Antonino Abate, un fervente patriota e repubblicano, dal quale assorbì influenze romantiche. Si nutrì della letteratura di Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Monti e Manzoni e dell’estetica di Hegel, ma anche degli autori francesi come Alexandre Dumas.
Nel 1858 si iscrisse a Giurisprudenza, ma continuò a scrivere e pubblicare i suoi racconti a puntate sui vari giornali dell’epoca. Nel 1861, anno dell’Unità d’Italia, Verga abbandonò gli studi, dedicandosi all’attività letteraria e al giornalismo politico. Catania stava vivendo un periodo di forti cambiamenti e di rivolte.
Giovanni Verga e gli anni di Firenze, punto di ritrovo per artisti e letterati
Nel 1865 Verga abbandonò definitivamente gli studi in Giurisprudenza e si recò a Firenze che in quegli anni era diventata la capitale del Regno d’Italia e rappresentava un punto di incontri per gli intellettuali e gli artisti di quell’Italia che si stava affermando come nazione.
Conobbe Luigi Capuana, critico della Nazione, i pittori Michele Rapisardi e Antonino Gandolfo, catanesi come lui. Vi rimase fino al 1871. Nel 1866 l’editore torinese Negro pubblicò il suo romanzo Una peccatrice di impianto melodrammatico e di ambientazione borghese. Inoltre frequentava numerosi salotti e Caffè. Fu presso il Caffè Michelangelo che entrò in contatto con i Macchiaioli.
Nel 1870 pubblicò sulla rivista di moda, Il Corriere delle dame, Storia di una capinera, un romanzo che ebbe successo e che permise allo scrittore di ottenere i suoi primi guadagni.
Gli anni a Milano
Verga trascorse circa 20 anni a Milano dal 1872 al 1893. Fu introdotto negli ambienti letterari sia da Capuana, che gli presentò Salvatore Farina, direttore della Rivista Minima, sia da Dell’Ongaro. Entrò in contatto con gli Scapigliati come Emilio Praga e Arrigo Boito, ma soprattutto cominciò un lungo dibattito sul Naturalismo e sul Verismo. Entrò in contatto con la cultura francese e in particolar modo con la letteratura di Zola, Flaubert, Balzac e Maupassant.
Nel 1873 Verga scrisse Eva, nel 1875 Eros e Tigre Reale, romanzi dall’ambientazione borghese e che avevano come protagoniste delle Femme Fatale. Solo Nedda, scritta nel 1874 rappresentò un’eccezione. L’ambientazione cambiò perchè Verga decide di dedicarsi alla sua Regione d’origine e diede vita ad un bozzetto dell’ambiente contadino siciliano. Lo sguardo era ancora melodrammatico e pietoso, ma per la prima volta Verga rivolse la sua attenzione agli umili della storia.
La sua poetica si evolverà così nella raccolta di novelle dal titolo Vita dei Campi e successivamente il Ciclo dei Vinti con I Malavoglia, Mastro Don Gesualdo, la Duchessa di Leyra e le Novelle rusticane.
Verga fu così il massimo esponente del Verismo in letteratura, ma aveva assorbito le idee del suo tempo che a partire dal Realismo francese si erano estese nella pittura e nella letteratura passando per Gli Impressionisti, Zola, fino ad arrivare ai Macchiaioli e ai Veristi in Italia.
Il Realismo francese
Tutto cominciò con La Libertà guida il popolo di Delacroix:
l’artista rievocò la Rivoluzione del luglio 1830. Si tratta di un quadro simbolico con l’immagine di una donna, allegoria della libertà. Allo stesso tempo i cadaveri stesi in terra sono rappresentati in maniera realistica. Questi aspetti così disprezzati dalla critica conservatrice dell’epoca, diventeranno il punto di riferimenti degli artisti che seguiranno che cercheranno di cogliere sempre di più il “vero”.
Courbet nel 1861 affermò:
“La pittura è un’arte essenzialmente concreta e può consistere solo nella rappresentazione di cose reali ed esistenti. E’ un linguaggio interamente fisico, che ha per vocaboli tutti gli oggetti visibili; un oggetto astratto, invisibile, che non esiste, è estraneo all’ambito della pittura.”
Da Courbet in avanti trovarono spazio anche elementi di figurazione non aulici e non accademici, spesso anche popolari. I caratteri del Realismo cominciano ad emergere con forza nel 1850, ma in particolar modo nel 1855, poiché Courbet espose nel padiglione del Realismo, ma già in Europa quei “semi” lanciati dalla Libertà si erano sparsi e stavano producendo i loro frutti.
Nel Salon di Parigi del 1824 oltre ai pittori accademici ed istituzionali che rappresentavano il Romanticismo e il Classicismo, ossia Delacroix e Ingres, c’era l’inglese John Constable che eseguiva bozzetti e studi en plein air, fu preso come punto di riferimento per la pittura di paesaggio e favorì la diffusione della modalità di pittura all’aperto che costituirà poi la cifra stilistica degli Impressionisti.
Ma furono i pittori della scuola di Barbizon a sviluppare ulteriormente l’esempio di Constable: tra questi ricordiamo Rousseau, Daubigny e Millet e Corot.
Ma ritorniamo a Verga che scrisse Nedda, e prendiamo come punto di riferimento Le spigolatrici di Millet.
Nedda di Verga e le Spigolatrici di Millet
Quando Millet aveva dipinto Le spigolatrici, Verga che aveva ricevuto una formazione di stampo risorgimentale e patriottico, stava cercando la sua forma letteraria, ma aveva già compreso che non si sarebbe laureato in Giurisprudenza. Si era nutrito di letteratura francese, in particolar modo di Dumas, ma percepiva che i confini della provincia di Catania cominciavano ad andargli stretti. Firenze e Milano finalmente gli aprirono gli occhi sul mondo, ma soprattutto la conoscenza di Zola cominciò a fargli respirare l’aria della modernità, delle spinte Positiviste, la presenza degli ultimi, la missione dello scrittore.
Non sappiamo quanto Verga fosse informato sugli artisti francesi, ma a Firenze aveva già conosciuto i Macchiaioli che avevano introdotto un nuovo sguardo nelle arti, così Verga fu alla ricerca di un nuovo sguardo per l’autore. Nel suo essere discontinuo negli studi e nell’abbracciare il giornalismo in fondo aveva fatto una sua scelta e si era distaccato dalla tradizione letteraria, ricercando la verità dei suoi anni e tutte le contraddizioni che un paese come l’Italia stava affrontando nei difficili incontri di Nord/Sud e Isola/Continente negli anni postunitari.
Le spigolatrici erano spesso ragazze madri, donne che erano rimaste vedove o orfane e così anche le raccoglitrici di olive narrate da Verga in Nedda, erano abituate a durissime condizioni di lavoro.
Le tre donne di Millet, rinominate poi dalla critica dell’epoca, Le tre Parche della povertà appaiono statiche, distrutte e abbrutite dalla fatica, ma allo stesso tempo ieratiche. Millet dal suo punto di vista cattolico, pur denunciando le condizioni di sfruttamento, voleva elevare la dignità del lavoro contadino.
Anche Nedda, veniva così descritta da Verga:
Era una ragazza bruna, vestita miseramente; aveva quell’attitudine timida e ruvida che danno la miseria el’isolamento. Forse sarebbe stata bella, se gli stenti e le fatiche non ne avessero alterato profondamente non solo le sembianze gentili della donna, ma direi anche la forma umana. I suoi capelli erano neri, folti, arruffati, appena annodati con dello spago; aveva denti bianchi come avorio, e una certa grossolana avvenenza di lineamenti che rendeva attraente il suo sorriso. Gli occhi erano neri, grandi, nuotanti in un fluido azzurrino, quali li avrebbe invidiati una regina a quella povera figliuola raggomitolata sull’ultimo gradino della scala umana, se non fossero stati offuscati dall’ombrosa timidezza della miseria, o non fossero sembrati stupidi per una triste e continua rassegnazione. Le sue membra schiacciate da pesi enormi, o sviluppate violentemente da sforzi penosi, erano diventate grossolane, senza esser robuste.
La descrizione di Nedda può dunque essere accostata alle spigolatrici di Millet. Il racconto è un bozzetto in quanto descrive realisticamente l’ambiente contadino siciliano, ma le tecniche narrative del Verismo sono ancora lontane. Il prologo richiama i moduli ottocenteschi e il narratore è molto presente nella vicenda.
Gustave Courbet, Gli spaccapietre 1849. Una denuncia sociale che scandalizzò la borghesia e si estese nell’arte e nella pittura
Gli spaccapietre di Courbet, scritto un anno dopo la pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels, suscitò scalpore e rifiuto presso la società borghese dei Salon parigini, ma cominciò a smuovere le coscienze degli intellettuali.
I due uomini, vestiti miseramente, sporchi e intenti se non addirittura alienati nel loro lavoro, non vengono purificati e nobilitati come fece Millet con i suoi personaggi. Il socialista Courbet era molto più critico nei confronti dello sfruttamento dei lavoratori. I dettagli così duri e precisi, il paesaggio ostile e petroso, i colori scuri su cui si stagliano i sassi bianchi che non indicano alcuna luce di salvezza, ma solo un destino pieno di affanni e durezze allontanano ogni speranza consolatoria.
Tra i vari artisti che Verga incontrò, circolava sicuramente l’eco della protesta sociale e l’attenzione agli umili. Anche se lontano del tempo accosterei Gli spaccapietre a Rosso Malpelo di Verga, racconto inserito ne La Vita nei Campi, che nel 1878 determinò il passaggio alla Letteratura Verista in Italia:
Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi un po’ di quel pane bigio, come fanno le bestie sue pari, e ciascuno gli diceva la sua, motteggiandolo, e gli tiravano dei sassi, finchè il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c’ingrassava, fra i calci, e si lasciava caricare meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e sporco di rena rossa, che la sua sorella s’era fatta sposa, e aveva altro pel capo che pensare a ripulirlo la domenica.
(Rosso Malpelo)
La descrizione di Verga è molto più cruda. Egli inserì un narratore interno che rispecchiasse la mentalità e l’abbrutimenti degli operai della cava e maltrattavano Malpelo, emarginato e vittima dell’ignoranza e del pregiudizio. Lo scrittore attua “l’eclissi d’autore” e ammette con onestà intellettuale che con la sua estrazione da proprietario terriero benestante, non avrebbe potuto rappresentare con verità il mondo di Malpelo. Così egli osservò si straniò e diede voce ai protagonisti delle miniere, ottenendo così una maggiore efficacia narrativa e denunciando sia pure indirettamente fenomeni come lo sfruttamento del lavoro minorile e del caporalato per i quali si prese provvedimento all’epoca con la legge Franchetti-Sonnino.
I Vinti di Verga e di Patini
Tra il 1883 e il 1886 Verga aveva già dato inizio al Ciclo dei Vinti con i Malavoglia, aveva scritto le Novelle rusticane e di lì a poco avrebbe scritto Mastro Don Gesualdo.
Il Verismo si estese anche in pittura con Teofilo Patini che dipinse una specie di “trilogia di denuncia sociale”, composta dai quadri L’erede, Vanga e latte e Bestie da soma.
L’erede, oggi conservato presso la Galleria Nazionale d’Arte moderna, si ispira a un tragico fatto di cronaca avvenuto a Castel Di Sangro. Il pittore ritrae la morte di un uomo e padre di famiglia e la disperazione della moglie lasciata da sola con il bambino, adagiato in un giaciglio con lo sguardo già adulto e perso nel vuoto. Gli spetterà un’eredità di miseria e di duro lavoro. Lo possiamo accostare ai Malavoglia, poichè la morte di Bastianazzo durante il naufragio della Provvidenza, provoca oltre al dolore, un danno economico.
La famiglia è ancora presente in Vanga e latte, che possiamo trovare al Palazzo dell’Agricoltura dell’Eur. Il quadro ritrae una famiglia di contadini, in cui la donna, durante una pausa allatta il bambino. Patini voleva denunciare il fatto che la questione agraria a vent’anni dall’Unità d’Italia non era stata ancora risolta. Patini come Verga credeva nei valori arcaici della famiglia e vedeva in essa quel nucleo primordiale che creava lavoro e che come afferma Verga per bocca di Padron ‘Ntoni dei Malavoglia doveva essere unita come le cinque dita di una mano e doveva rimanere tenacemente attaccata alla sua Terra per poter sopravvivere, proprio come accade nelle formiche della novella Fantasticheria, attraverso la quale viene enunciato l’ideale dell’ostrica.
Bestie da soma ritrae delle donne affaticate che svolgono il lavoro di trasporto della legna, in genere destinato agli animali. L’artista denunciò il fatto che le donne non venivano affatto tutelate, in quanto una era anziana e l’altra gravida.
Arrivata alla conclusione di questa carrellata di parole ed immagini per ricordare Giovanni Verga nel giorno dell’anniversario della sua nascita, spero di averti lasciato qualche curiosità sugli artisti fino qua spiegati.