Il 23 agosto 1927 Sacco e Vanzetti furono condannati a morte. La storia narra che sono stati entrambi vittime di una politica di terrore instaurata dal ministro Palmer e culminatasi in seguito con le espulsioni. Quando il verdetto di morte fu reso noto, si tenne una manifestazione davanti al palazzo del governo, a Boston. La manifestazione durò ben dieci giorni, fino alla data dell’esecuzione. Il corteo attraversò il fiume e le strade sterrate fino alla prigione di Charlestown. La polizia e la guardia nazionale li attendevano dinanzi al carcere e sopra le sue mura vi erano mitragliatrici puntate verso i manifestanti.
Sacco e Vanzetti, capri espiatori dell’ondata repressiva statunitense
Il 9 Aprile del 1927 Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti furono Condannati a morte dal tribunale di Thayer – Boston – per omicidio. Il 23 agosto 1927, alle ore 0:19 veniva giustiziato sulla sedia elettrica il primo dei due, mentre alle 0:26 toccava al secondo subire lo stesso destino. Ma la storia di Sacco e Vanzetti, i due emigrati italiani accusati negli Stati Uniti di aver preso parte ad una rapina uccidendo un cassiere e una guardia nonostante le prove evidenti della loro innocenza, non si chiudeva con la loro esecuzione.
Una storia di ordinaria ingiustizia, che divenne qualcosa di più grande e simbolico. Come lo stesso Bartolomeo Vanzetti comprese, quando rivolgendosi alla giuria che lo condannò alla pena di morte, disse: “Mai vivendo l’intera esistenza avremmo potuto sperare di fare così tanto per la tolleranza, la giustizia, la mutua comprensione fra gli uomini”.
Il destino dei due anarchici italiani, capri espiatori di un’ondata repressiva lanciata dal presidente Woodrow Wilson contro la sovversione, non solo smosse le coscienze degli uomini dell’epoca, ma come un fantasma continuò ad agitare l’America per decenni. Finché nel 1977, cinquant’anni dopo la loro morte, il governatore del Massachusetts Michael Dukakis riconobbe in un documento ufficiale gli errori commessi nel processo e riabilitò completamente la memoria di Sacco e Vanzetti. Le parole del governatore furono:
Io dichiaro che ogni stigma ed ogni onta vengano per sempre cancellati dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti
Arresto e condanna
Il 5 maggio 1920 Nick e Bart, come li chiamavano in America, vengono arrestati perché nei loro cappotti nascondevano volantini anarchici e alcune armi. Tre giorni, i due vengono accusati anche di una rapina avvenuta a South Baintree, un sobborgo di Boston, poche settimane prima del loro arresto, in cui erano stati uccisi a colpi di pistola due uomini, il cassiere della ditta – il calzaturificio “Slater and Morrill” – e una guardia giurata.
Dopo tre processi, i due italiani vengono condannati a morte nel 1921 nonostante contro di loro non ci sia nessuna prova certa, ma addirittura la confessione del detenuto portoricano Celestino Madeiros che ammette di aver preso parte alla rapina e di non aver mai visto Sacco e Vanzetti. E a nulla valsero neppure la mobilitazione della stampa, la creazione di comitati per la liberazione degli innocenti e gli appelli più volte lanciati dall’Italia.
Ben Shahn: la Passione di Sacco e Vanzetti
IL grande pittore e fotografo nordamericano Ben Shahn che nel 1932 realizzò una clamorosa esposizione di 23 dipinti sul tema “The Passion of Sacco and Vanzetti “ (La Passione di Sacco e Vanzetti”).
Scrive Mario De Micheli:
Ben Shahn, di origine ebrea, nacque in Russia nel 1898 ed emigrò con la famiglia in America all’età di otto anni, Fu il famoso processo a Sacco e Vanzetti che spinse Shahn a diventare un artista d’impegno sociale: la serie di quadri, tempere, acquarelli e disegni, dedicati a questo argomento, esposta nel 1932 a New York, attirò su di lui l’attenzione della critica. Nello stesso anno il pittore messicano Diego Rivera lo assumeva come aiuto per l’esecuzione dell’affresco al Rockefeller Center. Questo tirocinio gli sarà poi di grande utilità per la sua attività di pittore murale, assai intensa tra il 1937 e il 1942.
Ben Shahn è un pittore che punta in modo particolare sul mezzo grafico: il suo segno acuto, penetrante, riesce sempre a cogliere il senso di una situazione, di una fisionomia, il significato di una storia. Il colore obbedisce a questo segno, non lo sommerge mai, ed è un colore fermo, che è andato via via schiarendosi sino a diventare vivo e brillante: sale d’attesa, suonatori di piani verticali e di fisarmonica, disoccupati, uomini solitari nei prati di periferia, bambini che giocano in prospettive allucinate, vagabondi, operai, feste popolari: ecco i suoi temi preferiti, temi ch’egli svolge con profonda partecipazione umana.
In questo dopoguerra, il linguaggio di Shahn è andato trasformandosi, acquisendo una maggiore acutezza grafica, illimpidendosi: ma sino all’ultimo, nella sostanza, non mutarono le sue convinzioni. La sua morte è avvenuta nel ’69. Ancora pochi anni prima, in una dichiarazione rilasciata ad Allen S. Weller, si puo’ leggere: …Se lo stile del mio lavoro è cambiato negli anni, penso di poter affermare onestamente che le mie intenzioni di fondo sono rimaste le stesse. A un certo punto, assai presto nella mia vita, sono stato attratto non tanto dal destino dell’uomo, quanto piuttosto dalla condizione dell’uomo. La questione della sofferenza è un mistero che porta molte maschere e trevestimenti oltre al suo vero volto, ma noi ci scontriamo dappertutto con la sua realtà. Sono certo che, per alcuni di noi, essa è un fardello più profondamente sentito e personale che non per altri. Forse cerco, in modo primitivo, di esorcizzarla dipingendola, forse cerco di comprenderla o forse di condividerla. Quali che siano le ispirazioni e le pulsioni di base, sono conscio che l’interesse, la compassione per la sofferenza – sentirla, darle forma – è stata la costante intenzione del mio lavoro da quando, per la prima volta, ho preso in mano un pennello”.