A pochi chilometri dal centro di Roma, oltre il raccordo, lungo la via Tiburtina, c’è un luogo che racconta più di quanto mostra. Si chiama Settecamini, ma dietro questo nome si nasconde una trama di leggende cristiane, memorie rurali e trasformazioni urbane che merita di essere ascoltata. Perché non tutte le storie di Roma passano per il Colosseo.
Benvenuti a Destinazioni Sconosciute #53: oggi esploriamo un territorio al confine tra città e campagna, tra storia e periferia. Un luogo che parla con voce bassa, ma decisa.
Dove si trova davvero Settecamini?
Siamo a est di Roma, nel cuore dell’Agro romano, in una zona che urbanisticamente risponde al codice Z. VI, ma che amministrativamente appartiene al Municipio IV. A ovest c’è San Basilio, a nord Tor San Giovanni, a sud Lunghezza e Acqua Vergine, mentre più in là inizia già il comune di Guidonia Montecelio.

Una terra di confine, nel senso più concreto del termine: qui il cemento urbano si mescola con gli ulivi e le cave dismesse, i resti archeologici con i condomini popolari. È un mosaico di contrasti che raccontano la Roma che cresce senza fare rumore.
Il nome? Viene dai camini, ma anche dal martirio
Settecamini si chiama così non da sempre, anzi. Fino all’Ottocento, la zona era nota come “Forno dei Sette Fratelli” o “Osteria del Forno”, per via di un vecchio casale affacciato sulla Tiburtina: un punto di ristoro per viandanti e contadini. Ma il nome nascondeva anche un riferimento molto più antico e drammatico.
Secondo la leggenda, qui sorgeva il “Campo dei Sette Fratelli”, in memoria dei figli di santa Sinforosa, martirizzati dall’imperatore Adriano. I loro nomi – Crescente, Eugenio, Giuliano, Giustino, Nemesio, Primitivo e Statteo – ancora oggi sopravvivono nelle cronache agiografiche, ma anche nella memoria collettiva del quartiere.
Il nome “Settecamini”, invece, si diffonde a partire dalla seconda metà dell’800, probabilmente ispirato a un edificio chiamato “il Fornaccio”, con sette camini in bella vista. E così, il sacro e il profano si fondono come solo a Roma può succedere.
Una borgata nata dal dolore e dalla terra
Settecamini non è nata come quartiere residenziale, ma come borgata agricola. All’inizio del Novecento, su terreni del duca Leopoldo Torlonia, lo Stato avvia un progetto semplice ma ambizioso: assegnare case con appezzamenti di terra ai reduci della Grande Guerra, per farli tornare a vivere coltivando.
È un’idea che porta con sé speranza, ma anche fatica. Le famiglie costruiscono capanne, stalle, orti. L’elettricità arriverà molto dopo. E ancora oggi, chi ha vissuto qui negli anni ’40 o ’50, racconta un’epoca fatta di pane, terra e silenzio. Poi, negli anni ‘70 e ‘80, la zona cresce: prima lentamente, poi più in fretta, con nuove costruzioni, lotti misti, qualche servizio.
Ma Settecamini non ha mai perso la sua anima periferica. Quella che ti fa sentire un po’ fuori tempo, ma non fuori luogo.
Perché vale la pena andarci
A chi ama solo le bellezze da cartolina, Settecamini potrebbe sembrare marginale. Ma chi sa leggere il territorio oltre l’estetica, qui trova molto: una stratificazione unica di storia, religione popolare, esperimenti sociali e urbanistica fragile, ma vera.
C’è anche un casale medievale, ci sono resti antichi e luoghi che raccontano vite difficili e dignitose. Basta poco per accorgersene. Magari perdendosi tra le strade secondarie, o parlando con chi ci abita da generazioni.
Non troverai una guida turistica che ti porti qui. Ma è proprio questo il senso di una destinazione sconosciuta.