Chi è Andrea de Goyzueta
Intervista ad Andrea de Goyzueta
Quali sono le risorse che investi ogni giorno nel tuo mestiere? Parliamo del tuo tempo, delle tue risorse personali e intellettuali…
Il mio mestiere mi prende tantissimo tempo: dalle prove alle recite che mi portano a viaggiare per almeno 4 mesi l’anno. Ma è uno di quei lavori con cui si convive in ogni momento della giornata, è qualcosa che non ti molla mai.
Nei momenti di “pausa” dagli spettacoli, il tempo è investito nell’immaginare nuovi progetti, nel programmare nuova attività, nel cercare nuovo lavoro (eventuali provini e audizioni), nello studio di testi libri, immagini, negli incontri con i colleghi, nell’andare a vedere teatro, mostre, cinema, nel seguire gruppi e compagnie anche più giovani. Poi c’è il tempo dedicato all’attivismo che tante volte diventa anche sperimentazione pratica di nuove politiche culturali, con il sostegno ad azioni di spazi culturali e sociali, con la partecipazione alla vita dei beni comuni, dalle riflessioni più teoriche e alla preparazione di iniziative pubbliche.
In che modo la tua attività artistica ha influenzato e influenza ancora oggi la tua vita?
Sono un artista di 44 anni, solo dopo quasi 20 anni di attività posso dire che la retribuzione comincia ad essere commisurata ai miei sacrifici, tenendo conto che stiamo sempre parlando di un lavoro discontinuo e intermittente che oggi c’è e domani potrebbe non esserci.
All’inizio, soprattutto per chi si lancia nella attività artistica sperimentale indipendente, la dinamica dell’investimento personale in termini di tempo speso, sacrifici e lavoro gratuito è una costante; per i primi anni e anche molto più, le occasioni di retribuzione sono sempre sporadiche e mai ben commisurate agli sforzi e al tempo di lavoro.
Un elemento che per me è stato fondamentale nel sopravvivere in questo contesto lavorativo tanto precario e mal retribuito, è stato quello di differenziare il mio lavoro teatrale, lavorando tanto anche nella produzione e soprattutto nell’organizzazione di eventi, che attivano dinamiche lavorative più tradizionali anche dal punto di vista dei compensi economici.
La costanza è fondamentale in questo lavoro, così come l’acquisizione di esperienza (è necessario per questo avere una cura particolare per i giovani) e una propensione piuttosto elevata al rischio mi hanno aiutato, fino ad oggi, a raggiungere standard di retribuzione quantomeno accettabili ai sacrifici investiti e alla contribuzione del mantenimento di una famiglia.
Se ti dicessimo cose come “contratto, stipendio, assicurazione contro gli infortuni sul lavoro”, cosa ci risponderesti?
In che modo la pandemia ha complicato la tua già complicatissima vita lavorativa?
Aiuti da parte dello Stato?
Dopo il dpcm del 24 Ottobre 2020, che ha determinato la chiusura di cinema e teatri, ci sono state innumerevoli proteste e denunce. Di queste ultime, vorremmo porne una in particolare alla tua attenzione: la lettera di denuncia dell’associazione Attrici e Attori Uniti.
Segnaliamo l’emergenza di esserci ritrovati improvvisamente senza lavoro e senza reddito, ma, a differenza di altri, in un Settore già colpevolmente privo di tutele.
Inoltre, siamo stati i primi a fermarci e saremo tra gli ultimi a poter ricominciare.Con queste premesse,
DENUNCIAMO
– che le interruzioni dei contratti sono avvenute senza il rispetto delle leggi sui licenziamenti;
Posso riportare la testimonianza che riguarda il mio caso in quel determinato momento, in cui il mio contratto è stato interrotto per cause di forza maggiore prevedendo, come da contratto nazionale, il rimborso di 12 giornate lavorative.
Sulla questione generale andrebbe approfondito il discorso.
– che molte imprese si appellano all’emergenza per non onorare i contratti stipulati, con i singoli lavoratori o con le compagnie, relativi a lavori regolarmente svolti prima dell’emergenza sanitaria stessa;
Io sono stato retribuito fino al 4 Marzo (ultimo giorno di recita), prevedendo, come detto sopra, una sorta di bonus di 12 giornate lavorative in più come rimborso per le giornate perse.
Le giornate lavorative previste dopo il lockdown sono state annullate per causa di forza maggiore
– che una larga parte di lavoratori è rimasta esclusa dalle tutele del DL18 e DL 23, a conferma del fatto che l’apparato legislativo non è adeguato alle numerose specificità della nostra categoria;
È vero: il primo bonus era diretto ai lavoratori che avevano maturato 30 giornate lavorative, mentre il secondo bonus ai lavoratori che avevano maturato 7 giornate lavorative (quota davvero inclusiva).
Tutti gli artisti costretti a lavorare a nero (sono tanti) sono stati esclusi.
– che gli emendamenti proposti in difesa delle lavoratrici e lavoratori dello spettacolo sono stati bocciati;
Su questo la trattativa è ancora aperta, anche se il governo non sembra recepire la vertenza più importante: quella di riconoscere un reddito che garantisca la specificità del lavoro intermittente, come avviene nel resto d’Europa.
– che misure come il Fis o la Cassa in Deroga, senza possibilità di integrazione, non tengono conto dei rapporti lavorativi regolati da contratti di intermittenza e della situazione di precarietà dei lavoratori dello spettacolo;
È probabile. Aggiungo che va trovata una misura più adeguata della cassa integrazione, che probabilmente è una forma di tutela poco organica alla natura del lavoro intermittente e alla specificità dei lavoratori dello spettacolo.
– che non ci sono tutele, né garanzie, per tutti quei lavoratori impegnati in produzioni e progetti con data di inizio posteriore al 17 marzo, e che rimarranno sospesi per un tempo indeterminato;
È vero! Qualora per uno spettacolo previsto ad esempio a Novembre 2020 che salta causa Dpcm in cui si chiudono i teatri, il lavoratore coinvolto rimane senza lavoro, senza tutele e senza rimborso.
L’unica tutela rimane lo sporadico bonus del governo, che continua a non prevedere un piano di sostegno continuativo.
– che l’interruzione dell’attività di insegnamento (nel pubblico e nel privato) ha eliminato un’importante fonte di reddito per le formatrici e i formatori, oltre ad aver sospeso il percorso di studi di numerosi futuri giovani lavoratori.
Formatori e formatrici, oltre ad aver perso il loro lavoro, rischiano di non rientrare neanche in quei pochi bonus: perché le loro prestazioni non vengono calcolate sulla base della “giornata lavorativa”, necessaria per rientrare nei criteri di accesso al sostegno.
Sempre nella lettera, sono state fatte delle richieste specifiche. C’è altro che aggiungeresti?
Ma, al di là di qualunque ragionamento, il primo grande punto di partenza da cui non si scappa è che l’investimento pubblico alla cultura, nello specifico allo spettacolo dal vivo, andrebbe almeno triplicato per adeguarsi agli standard minimi del resto d’Europa.
Da qui poi si possono e si devono moltiplicare e diversificare le opportunità e le possibilità: dall’aumento di un fondo per le strutture ordinarie (o almeno dalla riduzione degli oneri e dei parametri, visto che ad oggi il Fondo Unico dello Spettacolo FUS è più paragonabile a un mutuo più che a un sostegno), alla creazione di un fondo di finanziamento a progetto per le compagnie indipendenti, affinché possano svilupparsi autonomamente e possano autodeterminare il loro destino artistico.
Per non dimenticare il sostegno alla distribuzione per sostenere gli spazi di prossimità territoriali, i teatri più piccoli, che sono spesso punti di riferimento delle tantissime comunità, per riattivare il giro e le tournée dei progetti di alta qualità, che sono esclusi dal mercato perché non prettamente commerciali, o di natura poco inclini ai grandi numeri.
Il primo e più urgente intervento è quello di creare un reddito di intermittenza o discontinuità che riconosca la specificità del lavoratore dello spettacolo, dell’arte e della cultura, garantendo una continuità di reddito anche nei momenti di non lavoro.
Non è una misura assistenziale, ma un intervento che garantisce un diritto fondamentale per un mestiere che contribuisce alla crescita civile, culturale e anche economica del paese.
Il reddito verrebbe corrisposto in base alle giornate lavorative maturate l’anno o gli anni precedenti. Uno dei modelli a cui molte piattaforme e movimenti di lotta fanno riferimento è quello francese.
Durante il servizio di Rai News 24, Giuseppe Micciarelli si è fatto portavoce dell’Assemblea dell’Asilo parlando di “reddito di creatività” e “reddito di cura”: puoi dirci qualcosa di più a riguardo?
Tornando alla situazione Covid: l’Agenzia Ansa ha dichiarato di essere pronta ad ospitare spettacoli teatrali ed eventi culturali sulle sue piattaforme online, come riportato nell’articolo del 28 Ottobre. Credi sia una buona soluzione?
Con il Dpcm del 3 Novembre, sono stati chiusi anche musei e mostre. Come dichiarato da Franceschini il 25 Ottobre, simili misure vengono adottate per ridurre la mobilità dei cittadini. Cosa ne pensi?
I dati Covid relativi al teatri e ai musei hanno mostrato un rischio di contagio bassissimo. Molti centri culturali hanno fatto grandi investimenti per svolgere la propria attività in assoluta sicurezza, per cui la chiusura è stata una doppia beffa.
Da un lato credo che in un momento così duro, dal punto di vista della tenuta psicologica delle persone, portate a vivere in uno stato di paura e di senso di colpa, gli spazi che producono arte e cultura, bellezza e capacità critica e di pensiero, nonché le scuole, debbano funzionare alla stregua degli ospedali.
Dall’altro lato credo fermamente che anche se i teatri e i musei restassero aperti, le istituzioni non potrebbero sottrarsi a riconoscere uno stato d’emergenza dei luoghi e dei lavoratori culturali: le necessarie restrizioni Covid (numero limitato di pubblico, distanziamento ecc.) comportano gravi perdite e riducono notevolmente le possibilità lavorative.
È per questo che all’annuncio della riapertura dei teatri del 15 Giugno 2020, il movimento dei lavoratori dello spettacolo ha parlato di “falsa ripartenza”.
Quanto tempo pensi che impiegherà il settore dell’arte a risollevarsi, dopo questa battuta d’arresto?
Più passano i mesi e più cresce la consapevolezza che per tornare a una condizione di normalità, quella per cui i teatri possano ritornare a riempirsi, condizione necessaria per poter tentare di sopravvivere, la pandemia dovrà essere definitivamente sconfitta.
Sappiamo bene che si tratta di una possibilità ancora troppo remota e piena di incertezze. Si è consapevoli tra i lavoratori del comparto artistico di essere in un tunnel ancora molto lungo e di cui si fa fatica a intravedere la luce dell’uscita.
Io credo che solo con un vaccino o con l’evoluzione di una cura adeguata capace di contrastare gli effetti nefasti del contagio per Covid si possa cominciare a immaginare una vera ripresa. Sicuramente la stagione 2020/2021 è saltata, la speranza è che si possa ricominciare almeno nella seconda parte della stagione 2021/2022.
Una speranza che comporta comunque uno stravolgimento radicale nell’ambito del lavoro culturale, perché difficilmente i lavoratori riusciranno a resistere tutto questo tempo senza possibilità di svolgere il proprio mestiere, a meno che lo Stato non preveda un sostegno continuativo per tutto il tempo di questa emergenza.
Alla fine dell’articolo a voi dedicato, “Covid-19: artisti italiani senza tutele. L’Ex Asilo Filangieri propone un reddito di creatività”, ci sono alcune conclusioni.
Pare proprio che nel paese, che detiene i due terzi del patrimonio artistico mondiale, l’arte sia considerata un’attività “ricreativa”: qualcosa di leggero ed estemporaneo con cui “allietarsi” quando abbiamo un po’ di tempo libero.
Concezione che estendiamo anche all’artista stesso, che viene svestito della sua professionalità e del suo diritto ad essere persino retribuito per l’attività che svolge.
Tale visione è ulteriormente distorta dalla dualità sorta in seno a questo mondo – sempre per motivi culturali – che vede da una parte i progetti portati avanti da professionisti del settore e quelli messi in piedi a scopo amatoriale, spesso gratis.
Quindi, i prodotti artistici di cui abbiamo beneficiato durante il lockdown saranno sembrati ai più non un gradito regalo – giacché spesso gratuiti – da parte di una categoria di lavoratori autonomi, ma qualcosa di dovuto.
Alla luce di ciò: se la figura dell’artista non è adeguatamente valorizzata nel nostro paese, forse la colpa è soltanto delle istituzioni, ma anche nostra. Perché, ricordiamo: le istituzioni sono formate pur sempre da italiani, facenti parte della nostra stessa società.
Che sensazioni suscitano in te queste parole?
Sono d’accordo nel ritenere che l’arretramento delle istituzioni è consequenziale a un abbrutimento del paese e dei suoi cittadini, sempre più abituati ad avere un ruolo passivo e per lo più lamentoso, e a considerare inutile la cultura.
Siamo d’altronde il paese che ha avuto negli ultimi 30 anni uno sviluppo perlopiù televisivo, una crescita fondata sulla mitizzazione dell’intrattenimento, con ampie parti del settore artistico e culturale che hanno preferito rincorrere ed adeguarsi a quel linguaggio e a quei contenuti anziché contrastarli.
La grande offensiva del capitalismo, che negli ultimi 30 anni ha potuto correre incontrastato, ha imposto, per citare Mark Fischer, una dittatura del realismo (capitalista appunto) per cui i suoi valori (quelli del capitale) diventano anche i valori dell’esistenza umana, valori tutti concentrati nella vorticosa economia del tempo la cui essenza riposa nella velocità del consumo e della produzione.
Un realismo che impone al mondo una consapevolezza (sbagliata) che non ci possa essere alternativa a questa possibilità (“È davvero più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo?”).
Non è un caso che anche la nostra politica si sia adeguata completamente a questo mantra: dalla destra alla sinistra si è passati dagli slogan come “con la cultura non si mangia” a quelli per cui “la cultura deve camminare con le sue gambe“, una retorica forse ancora più pericolosa della prima perché relega il settore culturale a un ruolo di marginalità e subalternità, ad adeguarsi alla logica commerciale e ad abbandonare qualunque possibilità di approfondimento.
Il ruolo degli artisti è oggi più che mai quello di decolonizzare i sogni da questa gabbia e da questo odioso conformismo e ritornare a guardare “al cosmo, allo smisurato, al magnifico”.
Ultima domanda, forse la più importante: secondo te, in che modo si potrebbero educare i cittadini a comprendere tale grandissimo valore di cui si fa portatrice l’arte?
Bisognerebbe innanzitutto uscire da una logica colonizzatrice dell’arte e della cultura, per cui le politiche culturali vengono imposte dall’alto in una dinamica che rischia costantemente l’autoreferenzialità.
Il compito, sempre più chiaro a molti, degli artisti e degli operatori culturali non è quello di ampliare la “clientela” del pubblico in un’ottica del consumo, ma di favorire l’autodeterminazione di un pubblico critico e quanto più consapevole.
Per quanto mi riguarda una delle sperimentazioni più interessanti rispetto alla formazione della cittadinanza attraverso l’arte e la cultura è quella dei beni comuni. L’Asilo in particolare in questi anni ha generato interesse, nuovo attivismo, senso di responsabilità, la gioia di partecipare, di collaborare e di lavorare insieme.
Ha dato la possibilità a chiunque di poter sperimentare non solo processi creativi e artistici, ma anche aggregazioni civiche e progetti di solidarietà. La sua natura informale, le sue porte sempre aperte a tutte le ore e il fatto di lasciare libertà assoluta alle proposte ha liberato talenti nascosti e energie sopite negli anni da concezioni passive della vita politica.
In che modo? Io credo innanzitutto per la sua origine: il fatto di nascere da un momento conflittuale, da un gesto di rottura, l’occupazione, aggregata alla capacità di costruire una reale auto organizzazione orizzontale, in grado di portare avanti sperimentazioni e rivendicazioni su più livelli (politiche, artistiche, culturali, giuridiche, sociali) ha creato un senso di fiducia collettiva in grado di combattere contro l’impotenza a cui la cultura della delega ha condannato negli anni buona parte della cittadinanza (soprattutto quella delle nuove generazioni).
Si tratta di una gestione collettiva di un bene pubblico che non ha filtri: tutti possono parteciparvi in prima persona, tutti possono proporre, tutti possono sentirsi protagonisti di qualcosa che negli anni è diventato un punto di riferimento in tanti campi dell’arte e del sapere.
Questa caratteristica ha generato affezione e affettività, ha prodotto idee e voglia di fare, ha stimolato all’approfondimento e al rispetto reciproco, ha formato nuovi appassionati di teatro, di cinema, di arte, di letteratura, di filosofia, di diritto.
Inoltre, il carattere multidisciplinare del processo dell’Asilo è stato da subito una novità in città e ha mostrato quali dinamiche moltiplicatrici possa generare l’intreccio e la connessione degli interessi particolari, dei diversi pubblici e dei diversi modi di intendere la cittadinanza attiva.
Per fare un esempio: chi entra per un’attività sociale, può scoprire un interesse per il concerto di musica che contemporaneamente si tiene in un’altra sala, o soffermarsi a una presentazione di un libro che in quel momento si sta svolgendo in una sala dove sono esposte le opere di un’artista in residenza, e così via.
Uno dei motori che contribuisce ad alimentare tali convergenze è la dimensione della socialità, che facilita l’avvicinamento delle persone all’arte. La dimensione del centro culturale, del museo o del teatro monotematico in cui si entra solo ed esclusivamente per fruire di uno spettacolo, rischia di avere un effetto respingente.
Ovviamente non mi illudo che un centro di arte e di cultura improntato sulle caratteristiche del bene comune di cui ho parlato, seppur capace di accogliere un numero altissimo di fruitori e partecipanti in un anno, sia in grado di condizionare le masse come potrebbe farlo la televisione o il web, per i quali si dovrebbe tentare di fare un discorso a parte, provando ad utilizzarne le potenzialità per promuovere in maniera virtuosa e meno sbrigativa la bellezza e il senso del sublime che l’arte e la cultura producono.
Però sono convinto che le sperimentazioni dei beni comuni possano aprire nuovi sentieri e possano suggerire delle modalità diverse di approccio e di gestione dei teatri e dei centri culturali, anche istituzionali.
A Napoli ad esempio è importante citare i casi del MANN Museo Archeologico di Napoli, che pur conservando la sua natura museale è diventato un attrattore culturale dedicandosi alla connessione di arti e saperi diversi, alla produzione artistica, alla ricerca, alla cura della socialità (ha ospitato finanche momenti dedicati al cibo e alla degustazione).
Il Mann negli ultimi anni, forte di questa impostazione e complice anche lo sviluppo turistico della città, ha moltiplicato il numero di visitatori in maniera esponenziale.
Stesso discorso vale per il Teatro Bellini, che ha cominciato ad aprire il teatro a tutte le ore del giorno, dedicandosi anche alla musica, alle lezioni di storia, alle presentazioni dei libri, a progetti di socializzazione e partecipazione, nonché a impianti spettacolari particolarmente coinvolgenti, cambiando spessissimo la logistica e la disposizione delle sale, modulando l’aspetto e l’assetto di un spazio sulle prime appare come uno dei più classici teatri all’italiana.
La redazione di Arte.icrewplay.com ringrazia Andrea De Goyzueta per questa importante testimonianza.