Ci sono generi che, per decenni, non venivano presi sul serio. E tra questi, il musical occupava un posto d’onore… o forse sarebbe meglio dire di “disonore”. Perché, diciamolo: per lungo tempo, cantare e ballare in scena veniva considerato qualcosa di frivolo. Quasi imbarazzante, per chi voleva parlare di “vera arte”.
Eppure oggi nessuno si sogna di snobbare Broadway, né di dire che Les Misérables o West Side Story siano roba di serie B. Ma com’è successo? Quando il musical ha smesso di essere “leggero” e ha iniziato a essere preso sul serio?
Le origini tra spettacolo popolare e puro intrattenimento

All’inizio il musical nasce così: per divertire. È figlio del vaudeville, dell’operetta, del cabaret e del music hall. In poche parole, è uno show fatto per strappare sorrisi e applausi, senza troppe pretese intellettuali. E questa origine popolare se la porta dietro per decenni… nel bene e nel male.
Negli anni ’30 e ’40, con Hollywood in pieno boom, arrivano i musical cinematografici: quelli con Fred Astaire e Ginger Rogers, per capirci. Eleganti, impeccabili, ma ancora guardati dall’alto in basso da critici e accademici. Troppo zuccherosi, troppo “facili”.
Ma poi, qualcosa cambia
Negli anni ’50 e ’60 arriva la svolta. Rodgers & Hammerstein, Leonard Bernstein, Stephen Sondheim: ecco i nomi che rivoluzionano tutto. Iniziano a comparire musical con trame complesse, tematiche sociali, strutture narrative raffinate.
West Side Story non è solo Romeo e Giulietta in versione moderna: è una riflessione sulla violenza, sull’identità, sull’odio tra comunità. Cabaret è un pugno nello stomaco che ci parla dell’ascesa del nazismo. Rent ci trascina nel pieno dell’emergenza AIDS, tra povertà e disperazione.
Il musical, a un certo punto, smonta il suo stesso cliché. Diventa profondo, politico, scomodo. E il pubblico – quello che prima magari lo evitava – inizia a vedere in quegli spettacoli qualcosa di più: una forma d’arte completa.
Perché funziona? Perché ci colpisce così tanto?

Perché il musical ha un’arma che pochi altri generi hanno: la musica che amplifica le emozioni. Quando un personaggio canta, non sta solo “recitando con la voce”: sta esplodendo in un linguaggio che bypassa la logica e arriva dritto alla pancia.
Certo, serve saperlo fare. Ma quando funziona, è devastante. Chi ha visto The Phantom of the Opera o Dear Evan Hansen lo sa: esci con il cuore a pezzi. E ci ritorni, una volta, due, dieci. Perché ogni nota ti resta addosso.
Oggi il musical è dappertutto
Non c’è solo Broadway o il West End. Il musical è entrato nei teatri di provincia, nelle scuole, nei festival, nei talent televisivi. In Italia, per anni lo si è guardato con sospetto – troppo americano, troppo “di plastica” – ma ormai è parte del nostro immaginario. Notre-Dame de Paris, Giulietta e Romeo, Mamma Mia!… li conosciamo tutti.
E forse, proprio per la sua capacità di parlare a tutti – colto o non colto, giovane o anziano – è diventato la forma d’arte più democratica del nostro tempo.
E tu? Hai mai pianto per una canzone a teatro? Hai mai riso mentre tutti intorno cantavano insieme? Il musical non è solo spettacolo. È catarsi, emozione, memoria condivisa.
Seguici su Instagram @arteicrewplay per altri approfondimenti e racconti culturali. E se hai un musical del cuore, scrivilo nei commenti o condividi l’articolo con chi ama questo mondo quanto te.