Hai mai immaginato il tuo funerale? No, non per desiderio morboso. Ma per curiosità. Per vedere chi ci sarebbe, chi piangerebbe, chi invece resterebbe indifferente. Niccolò Fabi, nel 1997, con Rosso, ha dato forma musicale proprio a questo pensiero inconfessabile. Una canzone travestita da sogno, ma che in realtà ci parla di solitudine, rimpianto e amore non corrisposto, usando un solo colore come chiave per aprire ogni emozione.
Il rosso al posto del lutto: quando l’assenza non fa rumore
Il protagonista immagina di essere morto. Non perché lo desideri davvero, ma per scoprire finalmente la verità: chi gli ha voluto bene davvero? Chi gli manca? Chi lo pensa ancora?
E la risposta è brutale. Nessuno.
La persona che amava, lei, non solo non indossa il nero, ma arriva in chiesa con un abito rosso. Rosso come una ferita che non sanguina più. Rosso come un vestito scelto con leggerezza, quasi per vanità. In quella scena immaginata, bella senza più pensieri, lei è tranquilla. Forse persino sollevata. Come se quella morte non le togliesse nulla.
È lì che Fabi rovescia tutto: il rosso non è passione. È indifferenza. È distanza emotiva. È la conferma che il dolore è tutto da una parte sola.
“Hai presente quando sogni di morire?”: la frase che ci spoglia

La canzone si apre con una domanda semplice e spiazzante: “Hai presente quando sogni di morire per vedere chi verrà al tuo funerale?” Quante volte ce lo siamo chiesti, anche solo per un secondo?
Nel brano, quel sogno diventa visione amara. I gesti, i volti, le assenze. Il migliore amico che dorme mentre il prete parla. La figlia del dottore che piange in silenzio, senza farsi notare. La donna del cuore che non prova nulla. E lui, che assiste a tutto da spettatore invisibile, capisce di non aver lasciato segno.
Una confessione durissima: “Hai sbagliato tutto. Non manchi a nessuno.”
Non è solo una canzone sull’amore. È una canzone sulla scomparsa dell’ego
Rosso è un’autopsia dell’orgoglio. Dietro il sogno del funerale c’è il bisogno umano, disperato, di contare qualcosa per qualcuno. Di sapere che una mancanza sarà sentita. Invece, Fabi ci restituisce il quadro spoglio di un mondo che va avanti uguale.
E quel rosso, ancora una volta, torna a galla. Non è solo il colore del vestito. È la prova vivente che l’amore non era reciproco. Che il dolore non si distribuisce equamente. Che chi resta può anche liberarsi.
Un brano del 1997 che ci parla ancora oggi

Quando Rosso uscì, nel disco Il giardiniere, Niccolò Fabi aveva appena trent’anni. Eppure, già allora, sapeva raccontare le crepe dell’animo umano con una maturità sconcertante.
Nessuna retorica. Nessuna esagerazione. Solo immagini nitide, crude, sincere.
Il brano fu prodotto insieme a Riccardo Sinigallia e pubblicato da Virgin: un piccolo gioiello nascosto tra le tracce di un album ancora oggi amatissimo dai fan. Tre minuti e trentatré secondi in cui ogni parola pesa come una pietra. Nessun assolo, nessun crescendo. Solo una melodia essenziale che lascia spazio alle emozioni.
Cosa ci resta di “Rosso” oggi?
Ci resta una domanda che continua a fare male, anche dopo l’ultima nota: Chi ti vuole bene dopo di me?
Ed è lì che il brano smette di essere un esercizio di immaginazione e diventa una riflessione profonda sulla memoria, sull’amore, e sul senso di essere ricordati. O dimenticati.
Il rosso, alla fine, resta. Non solo sul vestito di lei, ma nei nostri pensieri. Ogni volta che ci sentiamo di troppo. Ogni volta che ci chiediamo se stiamo lasciando qualcosa dietro di noi. Qualcosa che duri.
E tu? Hai mai pensato a chi verrebbe al tuo funerale? Ti ha mai fatto paura l’idea di non mancare a nessuno?
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