Ci siamo occupati del giornalista e critico Paolo Petroni, del quale abbiamo segnalato l’uscita del suo libro La scrittura del teatro, drammaturgia italiana al passaggio del secolo (Gambini editore).
Giornalista dal 1970, caposervizio alla Cultura e allo spettacolo dell’Ansa, critico teatrale del “Corriere della sera” dal 1985, curatore di manifestazioni e festival, ci ha concesso questa intervista attraverso la quale abbiamo voluto far luce sui temi della ripartenza teatrale, con un’importante chiave di lettura, la passione, quella che è in grado di mantenere vivo il dibattito teatrale, quella fiaccola che nasce e si sviluppa anche nei piccoli teatri, come è successo alla generazione di autori che Petroni ha preso in esame nel suo libro; la generazione che dagli anni 9o del 900, fino ai primi anni del 2000 ha prodotto nuovi fermenti culturali.
L’esame di una lettera che nel 1959 Eduardo De Filippo scrisse all’allora ministro dello spettacolo, ci rivela una situazione tuttora attuale, uno stato di abbandono del teatro italiano che si muove in un mare agitato dalla crisi economica, dalla scomparsa di alcuni enti che avevano il compito di incentivare la nuova drammaturgia, un nuovo universo delle comunicazioni.
Vedere un teatro pieno grazie ad uno spettacolo di qualità rappresenta dunque il barlume per una possibile ripartenza, per aggiungere un ulteriore tassello alla storia teatrale fatta di morti e di rinascite, ma sempre vitale ed attiva.
Intervista a Paolo Petroni, autore de La scrittura del teatro, drammaturgia italiana al passaggio del secolo
Parliamo del tema centrale del suo libro, ossia la drammaturgia di fine secolo. Da un punto di vista storico e culturale quali sono stati i fermenti che allora agitavano la società e che possiamo ritrovare oggi?
Io prendo in esame gli anni dal 1990 al 2001, tra fine secolo e inizio del nuovo millennio. Sono stati 10 anni molto vivi per il teatro italiano e per la drammaturgia intesa come scrittura dei testi teatrali.
E’ stato un momento in cui è nata e cresciuta una generazione di autori teatrali, ossia un insieme di persone che hanno lavorato e scritto per il teatro con una qualità abbastanza alta.
Possiamo ricordare Ruggero Cappuccio, Roberto Cavosi, Vittorio Franceschi, Giuseppe Manfridi, Umberto Marino, Bassetti e molti altri. Sono tutte persone che hanno iniziato in piccoli teatrini a Roma, ci sono anche i napoletani come Ruccello, Silvestri e Moscato, Napoli ha però una tradizione e una vivacità che il resto d’Italia non ha.
Tutti questi autori in quegli anni nascevano e si formavano nei piccoli teatrini, si mettevano alla prova raggiungendo risultati importanti e molti di loro ancora oggi lavorano.
Da allora però non c’è stato quasi più nulla. Ci sono degli autori sparsi, ma non c’è più una generazione e un tessuto che lavora nel teatro e scrive per il teatro come allora.
Ciò può dipendere da diversi fattori, sicuramente dalla crisi economica, ma anche dall’arrivo di nuovi sistemi di comunicazione importanti, da Internet, alla televisione a Netflix. Ma tutto ciò non basta a spiegare le ragioni per cui questa ondata si sia esaurita. La fine di questo periodo ricco di fermenti, è in rapporto con la politica culturale che è stata fatta nel nostro Paese da sempre.
C’è una lettera famosa di Eduardo De Filippo del 1959, indirizzata all’allora Ministro dello spettacolo Tupini, in cui il drammaturgo mette sul tappeto una serie di problemi gravi, di disattenzione verso il teatro, di non aiuto, in confronto a tutto ciò che si dava al Cinema e alle altre arti. Se la rileggiamo oggi sembra attualissima, anzi oggi la situazione è ancora peggio perchè c’è un totale abbandono, non ci sono più impresari privati e grandi produttori come c’erano negli anni 60, 70, 80 e 90.
Rivedere quegli anni è un modo per riflettere e capire cosa c’è stato e perchè non c’è più e in che modo si possa ripartire. Oggi devo dire che se vado al cinema trovo delle sale vuote, se vado in teatro trovo delle sale piene se c’è qualcosa di interessante e di livello e questo può far ben sperare.
La pandemia è stato un momento che ha messo in crisi il teatro a causa delle chiusure dovute al lockdown. Queste chiusure e l’uso frequente della modalità on line ha in qualche modo influito sul linguaggio teatrale?
Per quanto riguarda il linguaggio è ancora da vedere. Sicuramente qualche autore avrà tirato fuori testi particolari mentre era chiuso in casa durante il lockdown. La Pandemia ha inflitto un ultimo colpo al teatro italiano costringendolo alla chiusura come non era mai successo prima nella sua storia. Il risultato è quello che vediamo oggi, soprattutto a Roma che rappresenta l’eccesso estremo. Grandi teatri come L’Eliseo e il Valle sono chiusi, così anche teatri piccoli e medi come la Cometa e l’Argot che non hanno riaperto.
In che modo ha influito nel 2010 la chiusura dell’E.t.i? (Ente teatrale italiano)
In quegli anni oltre all’Eti, l‘Ente teatrale che aveva a lungo sostenuto il teatro italiano, hanno chiuso anche L’Idi, (Istituto del dramma italiano) che lanciava attraverso premi gli autori inediti, è stato un faro per molti autori e ha operato anche all’Estero, il Ministero dello spettacolo è stato chiuso con un referendum. Mi sembra che queste cose parlino da sole, della situazione in cui siamo.
Il teatro rispecchia la società in cui vive. Negli anni 90, in una fase di transizione in cui il teatro cercava di rinnovarsi, i registi hanno ritrovato degli autori che nessuno aveva più messo in scena e che facevano parte del primo Novecento e del dopoguerra: Nicolaj, Terron, Rosso di San Secondo, Fabbri, vengono riscoperti e rimessi in scena da registi come Giancarlo Sepe e altri. C’era un interesse per le radici, che oggi non vedo più.
In che modo la drammaturgia e la critica teatrale possono unirsi e combattere in qualche modo la società dei “like”, dei “Tweet”, dei tuttologi del web che fa del marketing e che distrugge la drammaturgia e la critica?
Più che distruggere la drammaturgia, la società di oggi basata sui social, distrugge la capacità critica ed analitica, la capacità di leggere ed interpretare un testo scritto complesso. Forse poi nascerà qualcosa di diverso, ma sta cambiando tutto velocemente e non mi azzardo a dare giudizi.
Una recensione al mio libro ha però sottolineato come la passione e il credere in ciò che si fa sia l’unica possibilità per andare avanti. Posso notare che attualmente c’è un piccolo fermento, piccolo, ma c’è, forse una piccola base che pian piano può far riscoprire il piacere del testo e il piacere dello spettacolo dal vivo.
Ha altri progetti riguardo alla promozione di questo libro o altri studi sul teatro in cantiere?
Ho seguito tutta l’avanguardia romana degli anni 60 e 70, in particolar modo Sepe e Nanni. Vorrei mettere insieme il materiale e fare una riflessione su quegli anni là. Quella generazione lavorava sulla scrittura scenica e sulle parole e successivamente c’è stata la riscoperta delle parole.
La nostra redazione ringrazia Paolo Petroni per la sua disponibilità.